Che la storia abbia inizio!

" ELANOR" romanzo fantasy di Anna Beccani
I primi quattro capitoli
Elanor.pdf
Documento Adobe Acrobat 806.5 KB

 

 

1. Profezia

 

  L’alba era velata da sottili nubi quella mattina e una lieve foschia permaneva tra gli alberi come una presenza inquieta.

Arden camminava scalza sull’erba bagnata dalla notte, nutrendosi dell’es­senza che la Terra desiderava donarle e serena compiva quei gesti rituali, che scandivano i giorni della sua interminabile vita.

L’aria umida e fresca le sfiorò il viso, le agitò la veste, le penetrò nei polmoni e un leggero senso di soffocamento la fece barcollare.

Lo sguardo della giovane si spinse lontano mentre ascoltava quel vento mes­saggero, ma le notizie che le furono rivelate turbarono profondamente il suo spirito antico.

Lesta risalì il sentiero e raggiunta la fontana che decorava il giardino della bella città, vide un vecchio seduto sui freddi scalini di marmo.

La lunga barba canuta e il fisico stanco rivelavano un’età indefinita, ma gli occhi, ancora vivaci, esprimevano serenità e saggezza.

- Finalmente sei tornato. - lo salutò Arden sedendosi accanto a lui - Ormai sono alcune lune che ti attendo. -

- Sono vecchio, mia Signora. Il passo è lento e la fine vicina. -

- Posso rimediare a questo; più volte ti ho trasmesso la mia energia. -

- È tardi. La terra ha bisogno di cambiamenti e io non ho più la capacità di assecondarla. Il Nuovo è in agguato. L’evoluzione incombe e solo vite giovani e fresche possono assolvere il compito che da tempo mi compete. -

Un silenzio allarmante seguì le parole del vecchio.

- Nessuno tra noi può prendere il tuo posto. - lo informò Arden preoccupata - La popolazione ha raggiunto ormai da molto l’era della sapienza e i nuovi nati non trovano collocazione nell’insieme delle cose. -

- Lo so. I giovani non possiedono l’intraprendenza di un tempo; ma se non vi verrà posto rimedio, il Nuovo dilagherà e per tutti noi sarà la fine. -

Il sole si alzò all’orizzonte e il calore dei suoi raggi riscaldò l’aria, scacciando la foschia che rendeva più cupa quella giornata autunnale.

Arden aveva lo sguardo fisso sui bei palazzi della città che, liberi dalla coltre nebbiosa, si confondevano tra la ricca vegetazione, ma nonostante la gravità della situazione, nessuna emozione turbava il suo volto.

- Non puoi lasciarci. - sussurrò la giovane - Tu sei la nostra primavera, senza di te avremo solo inverni nel nostro futuro. -

- Ogni cosa può ripetersi, mia signora. Tutto può essere rifatto evitando gli errori compiuti. -

- Detesto la morte e mi ero ripromessa di non vederla mai più. -

- Ora, però, la vedrai in me - la corresse il vecchio - e se non farai qualcosa, il tuo popolo si estinguerà. -

Arden, scacciò le lacrime che volevano scenderle sulle guance e come una bambina trovò conforto tra le braccia stanche e tremanti dell’amico.

- Sei stato la mia guida da sempre. - affermò la giovane mostrando una lieve emozione - In ogni momento ho avuto il tuo sostegno. Dimmi cosa devo fare e io lo farò. -

- Devi concedermi la morte - sostenne l’umano con tono di supplica - e affin­ché la mia esistenza non risulti vana, devi ordinare alla tua gente di colonizzare una terra vergine e dare origine alla nuova razza. Solo così diverremo un popo­lo capace di sopravvivere al trascorrere del tempo. -

Arden fissò il volto rugoso del vecchio e in silenzio annuì.

Non voleva turbarlo con parole che potevano trasmettere solo timore e seduta sugli scalini della fontana lo lasciò libero di seguire il suo destino.

Assorta in tristi pensieri Arden attese che il sole si levasse alto nel cielo, poi raggiunse la Quercia Sacra ed espanse la mente per convocare i saggi della Terra Eterea.

- Sono trascorse molte ere da quando i popoli del Vecchio continente migra­rono verso ovest per popolare queste Terre e il nostro cammino è sempre stato sicuro e protetto - disse la fanciulla quando in molti la raggiunsero - ora però l’ultimo di noi che si è sottoposto al seme dell’Albero della Vita ci ha lasciato e senza il suo sostegno il Nuovo tornerà a minacciare il nostro mondo. -

- Allora è la fine. - commentò Fandor, un saggio appartenente alla stirpe dei druidi - La nostra società ineccepibile in cui tutto è curato e fatto vivere in eterno è troppo perfetta per reagire ai cambiamenti. -

- Sì, ma forse una speranza ci sarebbe. - lo corresse Arden.

- E quale sarebbe, mia Signora? -

- La nuova razza. Noi abbiamo ancora la possibilità di crearla. -

Un brusio si levò tra i presenti.

- È stato un tentativo che non ha dato buoni frutti in passato. - l’ammonì un altro saggio.

- È vero - asserì la giovane - ma questo ci permetterà di non cadere negli stessi errori. -

- Giusto - intervenne Fandor - quindi, se gli sbagli del passato ci mostrano cosa è meglio non fare, posso affermare, senza ombra di dubbio, che la convi­venza con questi esseri è esclusa. -

- Sono d’accordo - asserì Arden - perciò onde evitare che l’umanità venga contaminata dalla nostra presenza dovremo recarci in una terra vergine e se­guirne laggiù l’evoluzione. -

- Tu vorresti seminare l’Albero della Vita in una terra priva di controllo e dare i suoi frutti in pasto ai nostri figli? - domandò sconcertato un saggio apparte­nente alla razza dei nani - È una follia! Ti rendi conto di cosa ci chiedi? -

Arden rimase in silenzio, leggermente turbata da ciò che lei stessa aveva pro­posto.

- Lo so che soffriranno - ammise - ma apparterranno a una razza forte e l’emo­tività di cui saranno vittime li aiuterà a superare molte avversità. -

- Non è detto. - la corresse Fandor - L’irrazionalità umana è pericolosa. I sen­timenti hanno due facce: uno buono e uno cattivo e tutti noi conosciamo bene l’impulsività di quelle creature. -

L’assemblea divenne oltremodo chiassosa e fu una novità per quella gente.

Mai gli eventi avevano messo in disaccordo i saggi e soprattutto mai erano stati incerti.

- I rischi sarebbero contenuti se la nuova stirpe si sviluppasse tra noi e solo successivamente popolasse terre lontane. - propose un grosso nano, mentre cer­cava di farsi spazio tra le lunghe vesti dei maestri druidi - Perché contagiare esseri immortali destinati al ritorno? -

La sovrana si volse a guardare chi aveva parlato e gli occhi tristi mostrarono il suo disappunto.

- Perché la Terra non conosce la vita. - rispose con tono colpevole - E senza di noi l’umanità non può sopravvivere in quelle terre selvagge. -

- E come potrà resistere, allora, quando noi non ci saremo più? -

- Prima che ciò avvenga dovremo fare in modo che la terra accetti la vita e impari a proteggerla. - sostenne la sovrana. - Non c’è altra soluzione. -

- Abbiamo tentato più volte e abbiamo sempre fallito. - le ricordò un giovane druido - Tu credi di avere un simile potere? -

- Io no, ma tutti noi sì. - affermò Arden.

- E come possiamo noi, se tu, nutrice di questa terra, non ne sei in grado? - domandò il saggio nano.

Arden sospirò profondamente, poi si accinse a rivelare l’unica soluzione pos­sibile.

- Dovremo imprigionare l’entità che governa quei luoghi in un corpo immor­tale. In questo modo ne regoleremo le forze senza rivelare la nostra presenza. Poi gli consegneremo una donna umana e ci affideremo alla sua emotività e alla capacità di farla sorgere in altre creature. -

- Se l’essere immortale destinato a tale compito discenderà da te, sono sicuro che avrà la forza di dominare quella terra - asserì Fandor - ma sulla donna uma­na non avremo alcun controllo. -

- Per rendere meno aggressive le sue emozioni potremmo renderla immortale. - propose la sovrana - Non è mai stato fatto, ma se i frutti dell’albero della vita a noi danno la morte, agli uomini potrebbero dare l’eternità. -

Un silenzio allarmante calò tra i presenti.

Troppe novità avevano turbato i loro cuori e a questo nessuno era abituato.

- Anche se ciò dovesse avverarsi il Nuovo infetterà gli immortali destinati a proteggere la razza umana - replicò il druido con voce grave - e quando faranno ritorno, tutti noi ne saremo contagiati accelerando la fine del nostro mondo. -

- L’alternativa è morire senza lasciare traccia di ciò che siamo. - concluse Arden - È questo quello che volete? -

Il vento si alzò da est e un brusio dissenziente si espanse ovunque.

I cambiamenti erano stati da sempre un argomento scomodo tra i popoli della Terra Eterea e nessun Antico voleva ammettere che nelle parole di Arden si celasse l’unico rimedio all’assurda ostinazione che li aveva condotti verso la fine.

- Tu sai, mia Signora, quanto sia difficile per noi accettare la sconfitta. - am­mise Fandor quando la quiete calò nuovamente sull’assemblea - Gli insegna­menti stanno alla base del nostro mondo, senza i quali noi stessi non potremmo esistere. -

Un mormorio critico si levò dall’assemblea e il saggio alzò una mano per pretendere il silenzio.

- Tuttavia… - continuò a voce più alta - sarebbe assurdo non ammettere che i tempi sono cambiati. Il nuovo incombe su di noi e può essere affrontato solo con l’intraprendenza… Fattore di cui le tue parole, mia sovrana, sono un peri­coloso esempio… -

Arden si sentì oltraggiata dalle parole accusatorie del saggio, tuttavia non reagì.

La sua posizione non lo permetteva e in silenzio attese il verdetto dell’assem­blea.

- Se la nostra stirpe è giunta alla fine - proseguì Fandor interpretando il vo­lere dei presenti - è dovere di tutti assicurare un futuro ai nostri giovani e se la Nuova Razza è l’unica soluzione alla nostra estinzione, ogni sacrificio che ne deriverà sarà accettato. È con estrema umiltà quindi che ci mettiamo al servizio dei nostri figli affinché, in vesti umane, possano rappresentarci nelle ere future. Noi li aiuteremo ad evolvere e a progredire nel luogo prescelto e quando la terra apprenderà l’esistenza della vita ci rimetteremo alla sua volontà. -

Per affrontare il viaggio vennero costruite splendide navi, sovrastate da vele color del fuoco, sulle quali spiccava un bianco Unicorno simbolo di purezza.

Tutte le razze parteciparono alla loro realizzazione.

Gli elfi chiesero agli alberi di crescere sani e forti, affinché il legno destinato agli scafi resistesse alla forza del mare.

Gli gnomi donarono le gemme più brillanti per rischiarare le notti più buie.

I Nani assemblarono le imbarcazioni, mentre i druidi le resero veloci e stabi­li.

Le Fate saturarono le vele di venti favorevoli e i Troll offrirono il fluido delle montagne per placare le forze avverse e spingere i vascelli su coste benevole.

Quando tutto venne terminato, Arden chiamò a sé i figli reali che avrebbero avuto il compito di Guida.

Era una splendida mattina di fine inverno quando coloro sui quali gravava la speranza di un intero popolo si radunarono nei pressi della fontana.

Arden era seduta sui gradini di marmo e come una fanciulla giocherellava con l’acqua zampillante.

Non c’era solennità nel suo comportamento, non c’era preoccupazione nel suo sguardo, ma quando parlò sul volto giovane era evidente un’antica saggez­za.

- Figli miei - disse con voce sicura - vi chiamo così perché siete nati in ciò che io sono, oggi vi ho radunati qui perché è giunto il momento in cui io, nutrice di questa Terra, affidi a voi le sorti del nostro popolo. -

Per un attimo persino la leggera brezza smise di soffiare, poi Arden si alzò in piedi e sembrò che la sua esile figura sovrastasse l’intera radura.

- Ardua è l’impresa, ma è tempo che vi rechiate in una terra lontana e ne dominiate le forze affinché possa ospitare una razza capace di sopravvivere al Nuovo. Questo popolo sarà mortale, di natura fragile, emotiva e facilmente influenzabile, soggetto al dolore fisico e morale, ma nonostante l’irrazionali­tà avrà piena autonomia e capacità di scelta. Voi non dovrete influenzarne le decisioni, ma solo proteggerli perché dagli errori essi impareranno e dalla sof­ferenza evolveranno. -

Detto ciò Arden prese la mano di Ator, ultimo figlio del re degli elfi, e l’unì a quella di Gahial, unica sua discendente.

- Che la mia essenza vi dia più forza. - disse rivolta ai due giovani - Voi il giorno di mezza estate, quando nella Terra Eterea ogni elemento si rigenera nel nostro corpo, vi unirete. Tale sarà l’armonia sprigionata dai vostri corpi che l’essenza giungerà fino a noi ed a noi si unirà per ritornare nello spirito di coloro che nasceranno. Saranno concepiti due gemelli. Uno di loro si ciberà del frutto dell’Albero della Vita e la sua discendenza formerà quel popolo destinato a sostituirci nelle ere. L’altro gemello apparterrà alla nostra stirpe e lo Spirito di quella Terra risiederà in lui. Per anni ne dominerà le forze costringendo la natura ad assecondare le esigenze della nuova razza e quando il tempo sarà maturo nascerà una donna capace di attrarne l’attenzione. Lo Spirito della Terra apprenderà da lei l’esistenza della vita e se ne sarà compiaciuto la riconoscerà come nuova energia e gli uomini come suoi figli. In caso contrario la riuscita della missione sarà compromessa e così anche la sopravvivenza di ognuno di voi. -

La perplessità era dipinta sul volto dei presenti e Arden non riuscì ad ignorare quella tacita resa.

- Comprendo il vostro sgomento, ma il nostro sapere è privo di fondamenta su quella terra. Le certezze a cui siamo abituati non hanno valore tra gli uomini e l’unica speranza che posso darvi è di un triste ritorno per evitare che gli errori compiuti non si ripetano. -

- Quali errori mia Signora? - domandò Ator - Cosa abbiamo fatto che ha recato danno ad altre creature? -

- Niente di cui dobbiamo biasimarci, ma le emozioni umane sono imprevedi­bili e noi non abbiamo la capacità di comprenderle. -

- Perché? -

- Quando, molti anni fa, alcuni di noi si cibarono del seme dell’Albero della Vita, la razza umana si diffuse su questa Terra e per lungo tempo abbiamo vis­suto insieme. I saggi rendevano meno penose le loro sofferenze e noi benefi­ciavamo della vitalità di quel popolo riuscendo ad arginare il Nuovo ogni volta che gli uomini ne avvertivano la presenza; ma quella staticità non era adatta ad una simile razza. Essa è imperfetta ed anche allora sentì il desiderio di evolvere, mentre noi, per mantenere intatto il nostro mondo, soffocavamo ogni desiderio di cambiamento. Era una gabbia dorata ciò che offrivamo e questo dette origine a sentimenti malsani tra gli uomini, costringendoci ad abbandonarli al loro de­stino. Per anni la violenza dilagò sulla nostra terra e quando gli spiriti inquieti ritrovarono la pace, solo pochi umani erano ancora in vita. -

- Non capisco. - commentò scettico Ator - Cosa ha indotto gli uomini a com­battersi a vicenda? -

- La conquista del potere. - rispose la sovrana - A noi sembra assurdo lottare per un simile fardello, ma per loro è tutto. Non sono le responsabilità a spaven­tarli, ma la fame e la miseria e chi ha il potere può infliggerle a chiunque prima di doverle sopportare lui stesso. -

Per un attimo lo sgomento afferrò i presenti.

Non tutti erano a conoscenza di quei fatti e sapere che i loro figli avrebbero dovuto affrontare simili avversità li disorientava.

- Allora fu la nostra sopravvivenza a prevaricare. - continuò Arden - Oggi deve essere la loro. Ecco perché è necessario che gli umani espandano il do­minio su altre terre. Ecco perché li dovrete aiutare senza chiedere niente in cambio e dovrete scomparire quando il vostro apporto alla causa non sarà più necessario. -

Serio era il viso della giovane donna, splendido e pallido come la luna, ma una speranza s’intravide nei suoi occhi.

Una vaga ed esile speranza, che espulse nell’aria con un lieve sospiro.

Turbata per l’emozione provata, Arden volse lo sguardo alla Quercia Sacra sulla quale s’intrecciavano le mura di giunco della sua dimora e lì si diresse con passo lieve e riverente.

Ad un metro da terra si trovava una cavità nel secolare tronco.

Arden v’introdusse una mano e, mostrando gratitudine per il dono ricevuto, estrasse sette piccole sfere.

- Questi sono i Semi della Terra Eterea. - disse con aria compiaciuta - La guida di ogni razza ne riceverà uno. Essi hanno il potere di creare una dimora degna di voi e conservarla intatta nel tempo. -

A turno i presenti si avvicinarono alla Signora e, quando l’ultimo di loro prese il prezioso dono, anche la figlia Gahial si avvicinò.

Era splendida nella veste color del cielo che faceva intravedere il corpo per­fetto e i lunghi capelli castani le ricadevano sul seno, fino a sfiorare le curve dei fianchi.

La fanciulla guardò la madre con gli occhi verde smeraldo e in essi vi si poté leggere ogni cosa.

Era fiera del compito che le era stato affidato.

Un tempo anche sua nonna aveva fatto lo stesso con la figlia e per questo il passo era deciso mentre si dirigeva a prendere il suo dono.

A lei Arden affidò una piccola scatola con dentro il seme dell’Albero della Vita.

- Questo, figlia, lo affido a te. A te che porti nel corpo il sangue di ogni razza. A te che avrai la responsabilità delle loro scelte e che sarai madre di colui che dovrà cibarsi di questi frutti. -

Lo sguardo della Signora divenne malinconico, mentre osservava la giovane accettare con riconoscenza il prezioso dono, poi liberatasi dalle insolite sensa­zioni si rivolse nuovamente ai presenti.

- Portate con voi la mia benedizione e quella di ogni essere di questa terra. Che il nostro pensiero vi sia di conforto e di aiuto nei momenti più difficili. Sappiate che le anime del popolo immortale saranno sempre con voi e vi segui­ranno sempre. -

Con autorità regale Arden chinò il capo in segno di saluto; poi prese commia­to e lentamente risalì le ripide scale appoggiate sui nodosi rami della Quercia Sacra.

Raggiunta la sua stanza, si affacciò all’ampia finestra.

Da lassù Arden poteva vedere le navi sulla riva, poteva sentire l’odore del mare, poteva udire il rumore del vento e il canto dei gabbiani, poteva avvertire voci straniere che le parlavano di terre lontane e che durante la sua intermina­bile vita, mai avrebbe visto.

 

Libro primo

 

 

2. La Nuova Terra

 

Ator era salito sul ponte della nave per ascoltare il rumore del mare scorrere veloce sotto la chiglia.

Il vento, che portava il sapore del sale, soffiava forte sul suo volto agitando come onde in tempesta i lunghi capelli dorati.

Ogni muscolo era proteso ad assaporare le nuove energie, che costantemente spingevano la nave verso la meta e tutto il suo essere gli imponeva di catturarle e guidarle armoniosamente, affinché il viaggio proseguisse veloce.

L’elfo espanse l’essenza in quel mondo estraneo e ne avvertì la forza e la vastità.

Il suo spirito si aprì a nuove conoscenze e quelle forze si lasciarono usare sedotte dall’insolita entità.

Sembrava che niente potesse distogliere lo Spirito Antico dal sincronismo perfetto in cui si era inserito, ma una presenza disturbò la sua attenzione e, con­fuso, si volse in cerca di risposte.

Gahial procedeva leggera tra il sartiame manovrato con troppa maestria da esseri non abituati alle leggi del mare e, quando vide il compagno sul ponte, timidamente lo raggiunse.

- Avverto forze ignote. - gli riferì la fanciulla preoccupata - Energie che pren­dono vigore in me e che rendono vano ogni insegnamento. Ora che mi con­fondo con l’essenza di questi luoghi tutto mi sembra possibile; tuttavia sono consapevole che, quando scenderemo da questa nave, il legame con la terra si rafforzerà e io apparterrò solo a lei. -

L’elfo l’accarezzò e nel profondo del suo cuore desiderò rivedere un sorriso su quel volto troppo giovane per essere turbato da tristi pensieri.

- Hai ragione. - le disse - Questo vento porta notizie diverse. Notizie che non avrei mai pensato di comprendere; tuttavia, se queste rivelazioni renderanno la tua condizione penosa, sarò io a farmene carico e ti resterò accanto qualunque siano le tue necessità. -

La fanciulla lo guardò preoccupata.

- È pericoloso Ator. Queste parole vanno oltre il dovere e danno forza a un’emozione nuova, che noi non possiamo controllare. -

- È vero, quindi, se non vogliamo fallire, dovremo imparare a conviverci. -

Gahial rise.

La logica dell’elfo era infallibile.

Per ogni problema aveva una soluzione e sapere che le sarebbe stato vicino la tranquillizzava.

Nei giorni che seguirono, il tempo sembrò non trascorrere o scorrere troppo velocemente.

Gli esuli non seppero mai per quante lune solcarono i mari, ma uno splendido mattino, là a prua, si delineò il profilo della Nuova Terra.

Gli elfi giunsero per primi, seguiti, a breve, dalle altre razze e per l’attracco venne scelta una bellissima insenatura, dominata da una rigogliosa ed erta col­lina, che sembrava proteggerla da occhi indiscreti.

Dopo aver assistito alle operazioni di sbarco, le guide di tutte le razze rag­giunsero l’estremità del ripido poggio.

Il paesaggio era splendido da lassù.

Il verde brillante della terra rivaleggiava con l’azzurro intenso del mare, men­tre le imbarcazioni decoravano l’intera baia con le vele scarlatte.

Lì Gahial benedì la Nuova Terra e in lei infuse l’essenza plasmandola alle esigenze della sua stirpe.

Dal giovane corpo scaturì, fluida, la luce vitale e lenta si insinuò in ogni filo d’erba, albero, roccia, finché la terra sembrò tremare dal desiderio di lei.

I colori primaverili si trasformarono in oro e argento, i fiori in piccole gemme, gli uccelli cantarono l’amore e da quel giorno quella Terra fu lieta di ospitare le antiche stirpi.

Questo luogo divenne sacro e gli Unicorni, esseri perfetti che mai avrebbero mutato il loro spirito, ne divennero i custodi.

Essi si offrirono di provvedere alla tutela delle navi e di quella Radura che doveva rimanere intatta nelle ere, affinché il rimpatrio potesse un giorno com­piersi.

Così la Guida diede vita al Seme della Regina e intorno la foresta si fece lu­minosa.

La nuova energia si espanse per molte miglia, lambendo ogni cosa e in breve quei luoghi selvaggi vennero domati, diventando la degna dimora della razza più nobile e pura.

Quando tutto venne compiuto, Ator, con le altre guide, ricordò ciò che Arden chiese loro e rinnovò l’impegno.

Le parole pronunciate vennero impresse su tavole di acero e ogni sovrano vi infuse la propria essenza, affinché la profezia rimanesse viva nel tempo e ciò che fu detto non venisse dimenticato.

Il Sacro Testo venne posto al centro della radura e una nuova forza vibrò nell’aria.

Il prato si ricoprì di fiori, l’aria si colmò dei loro profumi e le energie delle razze si unirono a quelle della terra.

Tutto parve arrestarsi, proteso verso nuove conoscenze, finché quel suolo straniero obbedì alle richieste e un’imponente quercia si eresse in tutta la sua maestosità.

Il tronco massiccio inglobò le tavole d’acero e tale fu la forza conferita in quel legno che mai nessuno avrebbe potuto distruggerlo, poi una lieve brezza si alzò da est e gli sguardi si volsero malinconici verso il mare.

Le navi erano ancora nella baia, testimoni di un mondo ormai lontano.

Chissà se le avrebbero riviste?

Chissà se sarebbero mai tornati alla loro Terra?

Il vento aumentò, le vele si gonfiarono e la flotta incominciò ad allontanarsi per scomparire lentamente all’orizzonte.

Era giunto il momento di separarsi.

Quella terra fertile li chiamava, invitandoli ad esplorare le giovani forze, desi­derosa anch’essa di conoscere quegli esseri provenienti da luoghi remoti.

Il popolo dei troll si sarebbe diretto a nord, dove la loro anima sentiva forte la presenza di stupende montagne da scoprire e domare.

Gli gnomi decisero di andare a nord-ovest dove le gazze avevano indicato l’esistenza di ricchi giacimenti di gemme, mentre Balinor, re dei nani, fu lieto di occupare le zone di nord-est.

I druidi vollero spingersi a sud, sicuri di trovare lande desolate dove costruire le loro dimore e dedicarsi allo studio degli antichi testi, mentre le fate preferi­rono andare a sud-est.

Lì il loro corpo etereo avvertiva la presenza di laghi, fiumi, cascate e luoghi meravigliosi resi vaghi da una nebbia persistente in cui ogni essere avrebbe potuto perdersi, travolto dalla bellezza surreale.

Ator, infine, decise di andare verso sud-ovest.

In quella direzione il vento portava l’odore del muschio, il fresco profumo del bosco dopo una lieve pioggia, il rumore delle foglie mosse dal vento e, mentre la luce scintillante del sole filtrava tra i rami degli alberi e l’allegro vociare de­gli animali rendeva vivo ogni angolo della radura, le anime elfiche vibrarono di piacere, desiderose di condividere con quella terra le nuove energie.

Al centro sarebbe rimasto un vasto territorio, composto da monti, laghi, fiumi, boschi e vaste lande desolate, che un giorno sarebbe stato abitato dagli uomi­ni.

Così, per la prima volta, le razze eteree avrebbero preso strade diverse, ma il giorno di mezza estate i rappresentanti più antichi si sarebbero radunati nuova­mente in quella radura per sostenere e guidare il germogliare delle nuove vite destinate a forgiare il nuovo mondo.

Ben presto i preparativi per il lungo viaggio vennero completati e il mattino seguente le razze avrebbero dato inizio alla storia.

Nessuno dormì quella notte.

Le emozioni che la Nuova Terra faceva nascere nei cuori, turbavano i corpi esausti.

Ator si recò in cima alla collina per guardare l’ultima nave svanire all’oriz­zonte e lì Fandor lo raggiunse.

Il druido aveva deciso di seguire la Guida della sua razza e nonostante facesse parte dell’Ordine dei Saggi, anche lui, come gli altri, sentiva forte la bramosia verso nuove sensazioni.

- Questa Terra può dare alla nostra gente il futuro che cerca - sussurrò nella mente dell’elfo - tuttavia può anche distruggerla. Tale è il vigore degli elementi, che può sfuggire al controllo dei saggi e, se ciò dovesse avverarsi, sarebbe la fine per la nostra missione. - disse con un’insolita ansia nel tono della voce - Dobbiamo vegliare sui nostri giovani, affinché la bellezza di queste terre non li confonda e non li muti nell’essenza. Essi potrebbero cercare armonie diverse da quelle che conosciamo facendo nascere desideri pericolosi. -

Ator annuì, pur sapendo che l’ammonimento del compagno era difficile da evitare.

Lì tutto era sconosciuto, tutto spronava verso ignote esperienze e l’entusia­smo sembrava aver ripreso l’antico vigore.

Il mattino seguente le razze si misero in cammino.

Ator e Gahial, seguiti dal loro popolo, si diressero verso sud e, per un lungo tratto, furono accompagnati dalle fate e dai druidi.

Giunti nei pressi di un immenso lago si separarono.

Le fate proseguirono verso est, gli elfi ad ovest, mentre i druidi attraversarono quelle acque, dirigendosi verso regioni isolate.

Dopo aver percorso alcune miglia, Ator montò in groppa ad Artax, l’unicorno compagno di mille avventure, prese con sé Gahial e, insieme, s’inoltrarono nel­la foresta alla ricerca del luogo in cui avrebbero fondato la loro città.

- I saggi del tuo popolo non sono contenti di questa decisione - commentò Gahial, non appena furono abbastanza lontani - Loro hanno diritto a partecipare alla scelta. -

- Sì, ma loro non conoscono cosa noi sappiamo. Dentro di noi si cela un’emo­zione destinata a durare nel tempo. Sarà lei a guidarci nel luogo dove sorgerà la nostra città e la forza che anima i nostri cuori sarà la stessa che farà sorgere le sue mura. -

Gahial lo guardò col terrore negli occhi.

Il loro mondo stava crollando ancor prima di sorgere e non sapeva come fare per evitarlo.

- Non credi alle mie parole? - domandò Ator, fermando l’unicorno.

- Sì, ma ho paura. -

- Tu hai paura? Anche questa è una novità, ma credo che non sia una minac­cia. -

Gahial era confusa e Ator condivise con lei i suoi pensieri.

- Il mondo è vasto e ci sono verità che noi ignoravamo, ma che adesso non possiamo rifiutare. Questa terra è diversa da tutto ciò che ci è noto e per domi­narla è necessario che lei comprenda i nostri desideri. Non possiamo imporle il nostro volere perché un giorno potrebbe ribellarsi e determinare il nostro fallimento. -

- Potresti sbagliarti… -

- Gahial. - sussurrò l’elfo cercando il volto della ragazza per leggerne l’espres­sione - Tu stessa nella Radura di Ellen ti sei mostrata per quello che sei e nono­stante volessi fermarti, hai fatto quello che ritenevi giusto. Ora dobbiamo fare altrettanto. -

- Non voglio che tu rischi la vita per compiacere questa terra. Sono io che appartengo a lei, non tu. -

- Il mio destino è legato al tuo. Tu nutri questa terra, ma appartieni a me e io appartengo a te. Non possiamo negare la realtà; tuttavia non possiamo nem­meno permettere a questa emozione di confonderci. Dobbiamo fare ciò che è giusto e solo noi sappiamo cosa lo è e cosa invece potrebbe portarci alla rovina. Nessun altro può capire. -

Gahial si strinse a lui e sentì il cuore battere più forte.

Un tenue rossore le colorò le guance e la mente si perse in una strana confu­sione.

Ator aveva ragione.

Non potevano ignorare l’emozione che li legava, ma solo accettarla e, per quanto possibile, adattarla alle proprie esigenze.

Così l’unicorno, senza attendere l’ordine, si lanciò nella corsa attraverso la folta vegetazione.

Splendidi erano quei boschi!

Giovani, vivi, selvaggi, traboccanti di energie e, mentre i due Signori li per­correvano, sentivano i cuori palpitare di gioia e gli spiriti struggersi di deside­rio.

Nel luogo in cui le sensazioni giunsero al culmine, deposero il Seme della Regina e lì tutto divenne perfetto.

In questi attimi di totale abbandono, gli elementi furono plasmati alle necessità del nuovo popolo ed essi si unirono in maniera armoniosa, creando un luogo di tale bellezza, che persino quel mondo ne fu lieto.

Qui il popolo elfico trovò la sua dimora e la città che vi sorse venne chiamata Smeralda.

Le belle case dalle ampie finestre si confusero con gli elementi della natura: la roccia si prestò a farne le mura, i rami degli alberi le travi di sostegno e il torrente che scendeva allegro da una ripida scarpata vi portò l’acqua, facendo zampillare le numerose fontane che decoravano i ricchi giardini.

La vita germogliò in quel luogo straniero e, fra i boschi rigogliosi, voci nuove si unirono al rumore del vento portando ovunque la notizia della loro venuta.

Il tempo trascorse più veloce di quanto quella razza antica fosse abituata e senza avvedersene, ogni giovane trovò collocazione nell’ordine delle cose.

L’apatia venne sostituita da un’allegra operosità e le vie di Smeralda si riem­pirono di persone intente nei lavori più disparati.

Ogni alba venne accolta da canti di benvenuto e ogni tramonto onorato da me­lodie di ringraziamento, mentre l’essenza di ognuno si unì a quella della terra plasmandola alle comuni necessità.

Il popolo elfico aveva ritrovato l’antico fervore e in quei periodi di pace il desiderio di Ator per Gahial divenne ogni giorno più intenso.

La fanciulla ne assaporava ogni sguardo, ogni lieve tocco, ogni sorriso, finché la passione intorpidì i corpi e stordì le menti.

Una settimana prima del giorno di mezza estate Artax e la compagna Merrin giunsero a Smeralda.

I nobili animali s’inchinarono ai due Signori e si offrirono di accompagnarli alla Radura di Ellen dove avrebbero generato i Predestinati a creare e proteg­gere la nuova razza.

Ghaial risplendeva di serenità, mentre, aiutata da Ator, saliva sull’unicorno; poi, insieme, si recarono nel luogo da dove tutto ebbe inizio.

Ad attenderli c’erano i maggior esponenti delle razze nobili, che, disposti in cerchio lungo il perimetro della radura, osservavano i due Signori raggiungerne il centro.

Lentamente una intensa luce azzurra scaturì da ogni essere e fluida, s’insinuò nel corpo degli amanti; poi Ator si diresse verso il mare, mentre Gahial prese la direzione opposta.

La cerimonia della fertilità si protrasse per l’intera giornata, mentre un canto elfico, proveniente da terre lontane, riempiva l’aria della sua armonia.

I due Signori s’immersero nelle acque cristalline di piccoli laghi, in cui il verde intenso dei boschi si specchiava tremulo.

La loro pelle venne cosparsa di fragranze della Terra e sui corpi vennero calati abiti di seta dai riflessi dell’arcobaleno.

Nei capelli di lei vennero intrecciati fiori di ogni colore, mentre sul petto di lui fu posto il pendente elfico del concepimento e le loro anime vennero preparate ad accogliere quella dell’altro.

Al tramonto entrambi si trovarono ai piedi della Grande Quercia.

Tremanti si toccarono e il profumo della pelle calda inebriò i cuori, fino a che il corpo di lei si aprì ad accogliere quello di lui e fu preso con tale ardore che i due esseri parvero fondersi in uno solo e, quando l’amplesso giunse al culmine e il seme trovò vita nel ventre di lei, la Gemma Elfica s’illuminò dell’essenza di tutto il popolo immortale e la sua luce si infuse nelle nuove entità che lenta­mente stavano germogliando.

I giorni trascorsero in attesa delle creature destinate a percorrere il difficile cammino verso la creazione del nuovo mondo.

Gahial sentiva la vita prendere forma nel suo corpo e felice ne gustava ogni istante, sapendo che, ben presto, avrebbe dovuto lasciarla.

Conscia di questa realtà, preferiva isolarsi e fare lunghe passeggiate accom­pagnata dalle fate e dagli unicorni, gli unici esseri che più sentiva vicini alla sua natura.

Gahial, infatti, non aveva uguali tra le razze.

Essere etereo per eccellenza, era l’unica della sua stirpe e in lei la Nuova Ter­ra trovava fonte di essenza come la Terra Eterea la trovava in sua madre.

Numerosi oneri le competevano, ma il più gravoso era scegliere quale dei suoi figli avrebbe dovuto rappresentare la razza mortale e quale quella immortale.

Tutto in lei si opponeva a un tale compito e l’inconscio le urlava il suo di­sprezzo!

Come poteva decidere il futuro delle sue creature, come poteva scegliere qua­le doveva morire e quale soffrire, chi era lei per attribuirsi un tale diritto.

Nessuno!

Lei non era nessuno!

Era solo un elemento di una serie di eventi concatenati, che avrebbe permesso alla sua stirpe di sopravvivere.

Questo le era stato chiesto, questo era giusto fare… e questo avrebbe fatto.

Così, giunta al terzo mese di gravidanza, Gahial si recò nella Terra delle Fate e insieme alla loro regina scelse una piccola radura vicino a una rumorosa ca­scata.

Qui l’odore del bosco si fondeva con quello dell’acqua e il sole, con i suoi raggi, creava giochi di luce dai mille colori.

L’ambiente tracimava della forza benefica delle sue abitanti e tutto era così armonioso e vivo che niente avrebbe potuto turbare la crescita dell’albero.

Così Gahial abbandonò ogni indugio, pose il seme sul terreno e il piccolo arbusto prese forma.

Le fate intonarono canti soavi e leggere danzarono per infondere magia in quel luogo; poi, librandosi nell’aria, giurarono di sorvegliarlo e proteggerlo per sempre.

A primavera l’Albero della Vita era rigoglioso e colmo di frutti.

Gahial andava spesso a sedersi sotto le sue fronde, ma un giorno mentre si recava nella Terra delle Fate, avvertì un cambiamento nel suo corpo.

Le giovani vite volevano lasciare il nido che per lunghi mesi le aveva protette ed energicamente chiedevano di venire al mondo.

Così, ignorando la tristezza per quel distacco, la Signora accettò l’aiuto degli unicorni che, velocemente, la portarono nella radura dell’Albero della Vita e sotto le fronde, i due bambini vennero alla luce.

Ghaial li prese tra le braccia e, per un attimo, cedette alla felicità, poi fece quello per cui era stata scelta.

Colse un frutto e, in maniera rituale, pose termine al suo tormento. Avvicinò la polpa gustosa alla bocca del secondo nato e il fato si compì.

In tutto il popolo delle antiche razze si avvertì la nuova presenza e l’essenza giunse dai luoghi più remoti per dare sostegno a coloro che, più di ogni altro, avrebbero dovuto inserirsi nel nuovo mondo e trovare un ruolo nell’ordine delle cose.

Tutto venne compiuto e tutto seguì ciò che era stato scritto, ma in quel luogo il futuro era imprevedibile e tra le genti un pericolo latente stava prendendo vigore.


 

3. Zargot

 

La candela illuminava con luce tremula il grande libro posto sul leggio di le­gno e Fandor, guardando attraverso una grossa lente, stava decifrando l’antica scrittura riportata su una copia fedele dell’Arco di Ermafren.

Doveva studiarne l’architettura per poterne realizzare uno simile nel lato ovest della città di Biblio e con impazienza aspettava il suo assistente, che do­veva portargli un antico testo di magia.

Ultimamente lo studio di quella scienza era stato bandito dal Consiglio dei Druidi, ma data l’importanza dell’incarico, Fandor aveva richiesto e ottenuto il permesso di accedere alle stanze segrete della Grande Biblioteca.

Non aveva mai amato ricercare i testi in quelle enormi stanze buie, stracolme di libri fino al soffitto, quindi aveva mandato Zargot a spulciarne i polverosi scaffali.

Il giovane druido gli era stato affidato dal Consiglio già da un paio di anni, ma da subito si era rivelato un po’ troppo intraprendente e spesso si era lamentato con lui per la poca affidabilità, ottenendo, però, scarsi risultati.

Il saggio era completamente assorto nel suo lavoro quando, con un cigolio infernale, la porta di legno si aprì e l’assistente entrò nella stanza più trafelato che mai.

- Chiedo perdono, maestro. Non ho giustificazioni per il mio ritardo. -

Fandor non gli prestò la minima attenzione.

In un’altra occasione si sarebbe arrabbiato, ma in quel momento era troppo indaffarato per perdersi in simili dettagli.

- Non importa ragazzo. - gli disse scocciato per il disturbo - Appoggia pure il libro sulla scrivania e vieni qui a darmi una mano. -

Zargot obbedì e timido mosse qualche passo verso il leggio.

- Cosa fai lì impalato! - gridò il maestro - Vieni qui, ti ho detto, e cerca di capire questa parola. Pagherei a sapere chi ha fatto questo disegno. Sicuramente doveva essere di razza elfica; solo i loro occhi possono avere una vista tanto acuta. -

Impacciato Zargot gli si avvicinò e, dato uno sguardo al disegno, la sua agita­zione divenne più evidente.

- “Sssentor” mio Signore. - rispose con una leggera balbuzie - La parola ri… riportata è il nome del primo costruttore dell’arco. -

Fandor sbuffò.

Detestava quando qualcuno metteva in risalto i difetti dovuti all’età e, stanca­mente, si diresse verso la scrivania.

Senza alcuna fatica prese il grosso libro che il giovane aveva portato, ma quando si accorse che i volumi erano due, la sua voce risuonò imponente nella stanza.

- Zargot! - esclamò infuriato - Perché questo libro è qui? -

- Perdona maestro, l’ho trovato in un baule nella Stanza Proibita e ho deciso di portartelo. -

- Sei uno sciocco! Tu non sai quanto male può fare questo libro. -

- Non più di quanto dilaga fuori dalle mura di Biblio. - replicò il giovane mettendo da parte la timidezza - Il Consiglio dei Druidi ha bandito lo studio della magia, ma se questa decisione porta benefici alla nostra stirpe, condanna le altre all’estinzione. -

- Farnetichi! Non sai di cosa stai parlando. -

- Il Nuovo è ovunque. Non puoi nasconderlo. -

- È presente tra coloro che distolgono l’attenzione dai loro compiti. Esatta­mente come hai fatto tu. -

Zargot sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere.

Se avesse continuato avrebbe potuto mettere a rischio la sua nomina di assi­stente, ma non se la sentì di tacere.

- Il nostro compito consiste nell’imparare per diffondere il sapere e quel libro può insegnarci a salvare il nostro mondo. -

- O a distruggerlo completamente. - lo ammonì il saggio, esasperato - Le razze eteree, pur provenienti dalla stessa terra, sono diverse tra loro. Non tutti hanno interessi particolari come li abbiamo noi. -

- Di certo non parli delle popolazioni del nord. - continuò caparbiamente il giovane - Ci sono le vie stracolme delle loro tombe. I viandanti raccontano dell’avidità in cui i nani e gli gnomi sono caduti, inoltre sembra che la terra, per vendicarsi, li abbia ingoiati nelle sue viscere. -

Fandor si sedette sulla sedia vicino al tavolo e, per un attimo, sembrò assorto dai pensieri.

- No, ragazzo. Parlo degli unici che possono proteggere i gemelli durante la loro permanenza nella dimensione intermedia e cioè gli elfi, le fate e gli uni­corni. Spetta a loro questo gravoso compito e noi non possiamo rischiare di contagiarli con magie estranee. -

- Magie estranee? Ma maestro tutto ciò che sappiamo proviene dai loro inse­gnamenti. -

- Non dagli insegnamenti, ma dalla loro essenza. - lo corresse Fandor - Quel­le creature si nutrono unicamente di contemplazione. Ogni sapere non viene appreso, bensì è lo spirito antico che istruisce le menti di esperienze passate e inconsciamente si insinua nell’essenza delle cose plasmandole alle comuni esigenze. È il naturale succedersi degli eventi che guida ogni pensiero, ogni sensazione, ogni gesto di quelle creature e l’equilibrio col mondo circostante le sostiene, permettendo di compiere ciò che sarebbe impossibile per altri; tuttavia se una magia estranea dovesse contrastare con la loro si genererebbero forze avverse di tale entità da distruggere tutto il mondo conosciuto e quel libro… - disse il maestro indicando con la mano l’antico testo come per incolparlo di fatti terribili - Quel libro ne porta in sé il seme. -

- Ma i nostri amici stanno morendo! E se leggessimo quel libro… -

- È la punizione per i loro errori. - gridò il saggio - Si sono lasciati plagiare dalla bellezza di questa Terra e hanno smesso di assecondarne le necessità. Sono egoisti! Desiderano solo domarla, dimenticando di nutrire lo Spirito di contemplazione. È per questo che l’essenza vitale diminuisce in loro e ogni variazione a questa logica conseguenza può portare solo danni alla missione. -

- È questo il motivo per cui è stato bandito lo studio di alcune scienze? - do­mandò l’allievo riuscendo a stento a placare lo sdegno per una simile limita­zione.

- Mi sembra che le motivazioni di questa decisione ti siano state spiegate più volte. -

- Ripetimele, maestro, perché ancora non sono riuscito a capirci nulla! -

- Noi siamo dotati di un’intelligenza superiore, raffinata da millenni di studi e siamo considerati il popolo più saggio tra tutte le razze, ma la nostra cultura deve limitarsi al solo sapere con il quale consigliare ed ammonire. Questa è la nostra natura e mai dovremmo allontanarcene! Nuove conoscenze potrebbero spingerci verso l’ignoto e provocare danni irreparabili. -

- La razza druida custodisce nel discernimento la salvezza delle razze ete­ree - ribadì Zargot con lo stesso impeto che lo aveva indotto a contraddire il maestro - ma siamo certi che su questa terra non sia un errore? Abbiamo mille conoscenze eppure dobbiamo rimanere inermi davanti alla morte. Siamo certi che sia la decisione giusta? -

- Anche noi stavamo per essere vinti da questi luoghi. - gli ricordò Fandor, visibilmente scosso - Le nuove conoscenze ci avevano stordito e le nostre menti non erano più in grado di ricevere le grandi quantità di nozioni che questa terra ci regalava. In molti non riuscivano a superare la sconcertante consapevolezza del proprio limite e l’equilibrio dello spirito druido stava per esserne intaccato. Noi possiamo cadere nell’errore come chiunque altro, ma nei periodi bui, in cui tutto sembra sbagliato, l’unica certezza ci è data dagli antichi insegnamenti e noi dobbiamo seguirli se vogliamo vincere sugli eventi. -

- Tu insieme agli altri saggi credete di aver risolto il problema censurando il sapere, ma questa limitazione ha provocato un serio tormento nella popolazione e fra i giovani dilaga il desiderio di trasgressione, alimentato da un’irrefrenabile cu­riosità verso tutto ciò che è stato precluso. Studi pericolosi vengono fatti nell’om­bra, senza controlli né limiti e in questo modo il Male trova nutrimento. Solo aiutando le popolazioni del nord potremmo sperare di sedare questa ribellione. -

- Il mondo etereo sta cambiando - annuì stancamente il maestro – sarebbe as­surdo da parte mia non ammettere la realtà. I nani scavano miniere sempre più profonde. Gli gnomi si perdono nello scintillio dei nuovi tesori, i troll, smaniosi di possedere le montagne, hanno dimenticato di rispettarne le leggi e noi, schiavi delle novità di questa terra, disubbidiamo agli antichi insegnamenti. Questo è il prezzo da pagare per vivere in questi luoghi sconosciuti e selvaggi, però se voglia­mo portare a termine il nostro compito non possiamo reagire in alcun modo. -

- Ma perché! -

- Perché l’avidità danneggia unicamente le creature che vi si abbandonano, mentre il nostro sapere, se erroneamente applicato, potrebbe decretare la fine di tutte le razze. -

- Non posso accettare tanta rassegnazione - sussurrò Zargot con le lacrime agli occhi.

- Persino i saggi elfi non si sentono abbastanza forti da affrontare il problema durante il periodo della formazione dei gemelli. - si giustificò Fandor, che per la prima volta si trovò in difficoltà a sostenere il volere del Consiglio - Questa è una fase importante per la riuscita della profezia. L’entità immortale deve re­golare le forze di questa terra, plasmandole alle nuove esigenze, mentre quella mortale deve assorbirne l’energia per generare una nuova razza. Questo ha la priorità su tutto e ogni rischio di contaminazione deve essere debellato. -

Fandor non disse altro.

Aveva timore di mostrarsi incerto e non voleva rivelare al ragazzo cose che avrebbero turbato ulteriormente il suo animo irrequieto, ma quando si avvicinò al leggio per riprendere il lavoro, la concentrazione tardò ad arrivare.

La mente era affollata di ricordi ed essere a conoscenza della sofferenza delle altre razze, rendeva instabile il suo autocontrollo.

Durante i lunghi viaggi che aveva intrapreso nel nord si era imbattuto più volte con gli effetti deleteri dei nuovi eventi e quei tumuli di pietre di cui Zargot aveva parlato, lui li aveva visti.

In principio non sapeva cosa fossero e quando aveva chiesto spiegazioni agli abitanti del luogo, aveva ricevuto risposte vaghe e confuse.

Alcuni raccontavano di strani animali che assalivano chiunque si avventuras­se nei boschi, altri che terribili malattie avevano esaurito la loro essenza, ma quello che più lo aveva incuriosito, era stata la natura.

Essa, tranne che nelle Terre delle fate, degli elfi e degli unicorni, era rimasta selvaggia.

Non era stata curata, né domata e sembrava aver preso il sopravvento sulle antiche razze.

Recatosi nella Terra degli gnomi “Zaffira”, Fandor aveva notato la mancanza dei piccoli templi dove, solitamente, quel popolo amava esporre i propri tesori e quando aveva chiesto spiegazioni, aveva ricevuto solo risposte evasive.

Per giorni aveva vagato alla ricerca della verità, finché, nelle grotte più pro­fonde delle Montagne Rocciose, aveva trovato enormi quantità di gemme ac­catastate con cura.

L’avidità aveva mutato la natura generosa del popolo degli gnomi, ma ciò che più lo aveva turbato era stata la scoperta di una enorme fossa in cui venivano gettati i corpi, orrendamente mutilati, di coloro che scoprivano l’ubicazione delle pietre.

Ne era rimasto sconvolto e, preoccupato, aveva deciso di raggiungere il po­polo dei nani.

Anche qui aveva riscontrato anomalie.

Questa razza non si era mai risparmiata nel lavoro, ma in questi luoghi la loro operosità era diventata un’ossessione.

L’incessante ricerca di metalli aveva spinto i nani a scavare miniere sempre più profonde, tanto da rendere necessaria la costruzione delle case al loro in­terno.

Ben presto, quei villaggi di minatori si erano trasformati in maestose città, ricche di palazzi dalle mille colonne sulle cui facciate risplendevano i tesori strappati, senza limite, alle viscere della terra.

Questa gente aveva abbandonato spontaneamente la luce del sole per soprav­vivere nelle profondità più recondite e sconosciute, finché in molti vi avevano trovato la morte.

La terra infatti aveva imposto i suoi limiti e in collera aveva sbarrato il cam­mino con spaventosi fiumi di lava che, sempre più spesso, uscivano dai loro letti per inoltrarsi nei cunicoli artificiali.

Tuttavia la laboriosità e la caparbietà di quella gente aveva prodotto i suoi ef­fetti e, se i nani non avevano potuto scavare oltre, ben presto avevano imparato ad usare quel calore infernale per forgiare ogni tipo di utensile ed arma.

Ogni esemplare di spada, lancia, armatura, era stata costruita in quantità esor­bitante tanto da riempire intere gallerie di scorte inutilizzate; ma Fandor non riusciva a capire quale catastrofe incombesse su di loro da far sorgere una si­mile necessità.

Non c’era alcun nemico da combattere, nessun conflitto da sostenere.

A chi poteva servire una tale armeria?

Fandor in un primo momento non si era dato risposta, poi un giorno capì.

Durante un’insolita festa, consumata nelle viscere della terra, era venuto a conoscenza di un crollo verificatosi alcuni anni prima nella parte est della mi­niera.

Sotto i piedi di un gruppo di minatori si era aperta una voragine, facendo pre­cipitare alcuni di loro in una sorta di anfratto.

Con mille difficoltà i superstiti avevano cercato di recuperare i corpi dei com­pagni periti nella disgrazia ma, quando si erano calati nella spaccatura, ciò che avevano visto era andato oltre ogni immaginazione.

Un’intensa luce azzurra, proveniente dalla volta rocciosa, rischiarava un mondo sotterraneo.

Dolci colline, ricoperte da un’insolita vegetazione, erano percorse da ridenti ruscelli la cui corsa terminava in un imponente lago dalle acque di un colore blu intenso.

Estasiati i nani si erano inoltrati in quel paradiso inaspettato, nell’esasperata ricerca dei suoi tesori, quando un’orrenda verità fermò le loro esplorazioni.

Quel mondo, pur isolato dalla superficie, non era disabitato e le strane creatu­re che lo popolavano si erano rivelate alquanto ostili.

Alcune erano talmente grandi da non accorgesi di loro, ma altre, dotate di denti ed artigli affilati, si erano avventate sugli avidi minatori mettendoli in fuga.

Per lungo tempo e con grande dispendio di vite, i nani avevano tentato di richiudere l’apertura, ma le creature erano riuscite ugualmente ad oltrepassare la soglia che divideva il mondo sotterraneo da quello di superficie e in caccia si erano inoltrate nelle gallerie artificiali, straziando i piccoli corpi di tutti coloro che si erano trovati sul loro camminino.

Negli anni successivi le aggressioni erano diventate sempre più frequenti e le morti talmente numerose da rischiare l’estinzione della razza.

In quella popolazione pacifica era sorta la necessità di difendersi e senza at­tendere consiglio dalle razze amiche, i nani avevano allestito un esercito con il compito di addentrarsi nei cunicoli più profondi della miniera e respingere le bestie nel loro mondo.

Quegli animali, però, si erano rivelati assai più intelligenti del previsto e, in breve, avevano sfondato le difese, inseguendo i fuggiaschi fino al mondo ester­no.

Per un periodo, la luce del giorno era stata l’unica forza capace di far arrestare la furia omicida di quelle bestie.

Gli occhi vigili, abituati alle tenebre, non avevano retto alla luminosità del sole, ma, in poco tempo, l’olfatto aveva sostituito la vista e quei mostri, infe­rociti dalla sofferenza, avevano invaso le foreste del nord, spargendo terrore in tutta la popolazione.

Fandor, per alcune ore, riuscì a mettere a tacere i ricordi gettandosi a capofitto nel lavoro.

Zargot si era rassegnato al volere del Consiglio e aveva smesso di contraddire gli antichi insegnamenti, ma i dubbi che il giovane aveva evocato, non erano facili da ignorare per il maestro.

Nervosamente Fandor chiuse il libro che riportava la descrizione dell’arco di Ermafren e una nuvola di polvere inondò un raggio di sole che entrava dalla piccola finestra.

- Maestro! - esclamò Zargot - Ho fatto qualcosa che ti ha irritato? -

Il saggio lo guardò.

- Come sempre. - esclamò burbero - Ma ora non ho voglia di parlarne. Piutto­sto, vai a riempire la brocca d’acqua e cerca di non metterci troppo tempo. -

Zargot obbedì e Fandor ne approfittò per affacciarsi alla finestra e prendere una boccata d’aria.

Le ultime rivelazioni, però, riaffiorarono nella sua mente più insistenti che mai.

La sorte dei nani e degli gnomi gli era in parte accettabile, perché ogni avver­sità era pur sempre sedata dagli elementi validi di quelle razze, ma la sorte dei troll aveva messo a repentaglio ogni sua convinzione.

A lungo il vecchio druido si era segretamente preoccupato per loro.

Le montagne erano maestose in quella terra e i troll avevano un’indole troppo bonaria per riuscire a comprenderne i pericoli, così un giorno aveva deciso di porre fine a quell’inutile ansia ed aveva chiesto aiuto alla Grande Aquila.

Seduto sul dorso dell’imponente volatile il druido aveva sorvolato per giorni le alte montagne del nord, finché, in una foresta sopra un altopiano irraggiungi­bile, aveva scorto ciò che era stato generato dal seme della regina Arden.

Qui si era fatto posare dal rapace amico, ma al posto dei gioiosi canti e delle risonanti risate aveva trovato solo desolazione.

Cauto era entrato nel palazzo disabitato e, tra quelle pareti lignee, era venuto a conoscenza del destino del Grande Popolo.

Ovunque vi erano segni di battaglia e sparsi a terra c’erano i poveri resti dei troll che vi avevano partecipato.

Giunto in una sala in fondo a un corridoio, su di un trono fatto di roccia e legno, il druido aveva trovato il re, ormai morto, con ancora la corona in testa e lo scettro di resina nella mano destra.

Ai suoi piedi c’era una splendida ambra, che gli era scivolata dalla mano si­nistra ormai ridotta in scheletro.

Affranto Fandor l’aveva raccolta e, quando l’aveva portata all’altezza del vol­to, una luce dorata aveva invaso la grande sala.

- … Ormai i pochi superstiti allo sfacelo sono rassegnati alla fine. - aveva detto una voce cavernosa proveniente dall’antica resina - Tra breve i compagni, che non hanno obbedito alla legge dell’essenza, ci raggiungeranno e porranno fine alla nostra civiltà. Saranno loro a regnare su queste terre, ma non riusci­ranno a domarle e, fin da ora, sono destinati a soccombere. Lascio queste mie parole a coloro che verranno, affinché facciano tesoro del nostro fallimento. Questa terra non può essere domata, ma solo capita ed assecondata. Unica­mente così potremo entrare in simbiosi con lei e nutrirne l’essenza. Forze sco­nosciute governano questa natura. Energie giovani e brillanti che solo i nuovi nati, di indole saggia, avranno le capacità di assecondare ed allo stesso tempo domare in modo da permettere alla nuova razza di resistere senza il nostro so­stegno. Penso, però, che l’arrivo della Donna Immortale, così la chiamò la no­stra regina, tarderà a venire. Lungo sarà il tempo perché questa terra sia pronta ad accoglierla. Mi auguro, che durante questo periodo, il Male non si diffonda e che le razze nobili abbiano la capacità di contrastarlo ed arginarlo. Chi è in grado di sconfiggerlo non è ancora su questo mondo. In lui dovranno fondersi i requisiti di questi luoghi con quelli della nostra Terra, perché solo così potrà capire entrambi i mondi e porsi al comando delle razze. Soltanto sotto la guida di un umano potremo sconfiggere gli effetti deleteri che il Nuovo ha su di noi, ma soprattutto, soltanto uniti potremo dare un futuro alla nostra stirpe. -

Improvvisamente la sfera aveva vibrato nelle mani di Fandor e il volto affran­to della guida dei troll era apparsa nella gemma.

- È giunta la fine. - aveva continuato quella voce - I ribelli sono entrati e tra poco conosceremo ciò per cui non eravamo destinati: La MORTE! -

La luce dorata dell’ambra si era fatta più intensa e, per alcuni attimi, era parso che la vita riaffiorasse tra quelle pareti lignee, profumate di resina, poi lenta­mente si era affievolita e in un attimo era svanita tra le mani del druido.

L’oscurità era calata nuovamente nella stanza e ciò che era rimasto dell’antica civiltà si era celato alla vista.

I tronchi maestosamente scolpiti, che adornavano la sala d’imponenti colon­ne, avevano perso il caldo colore e lugubri ombre si erano posate sui bellissimi intarsi.

Un gelo di morte aveva inondato il palazzo ed ogni cosa aveva gemuto, af­franta da quel dolore.

Fandor ricordò di aver chinato il capo alla guida amica, poi aveva avvolto l’ambra nel vessillo che giaceva a terra strappato e, per sempre, aveva abban­donato quel regno al suo destino.

La porta di legno cigolò e Zargot entrò nella stanza con la brocca colma di acqua fresca.

- Eccomi maestro, ho fatto prima che potevo. Posso aiutarti in altro modo? -

- No ragazzo. Vai pure. Per oggi abbiamo finito. -

Zargot lo guardò perplesso.

Solitamente lo tratteneva fino a notte inoltrata e vedere Fandor in quello stato lo preoccupò.

- Sei sicuro maestro? Mi sembri diverso. Ti senti bene? -

- Certo che mi sento bene! - gridò il vecchio - Ti ho detto di andare. Avrai anche tu qualche bella ragazza da inseguire no? Allora che aspetti. Vai! -

Zargot non se lo fece ripetere e Fandor rimase solo nella stanza di pietra.

Il druido riprese il lavoro cercando di liberare la mente dalle piccole noie causate dai dubbi e una volta riafferrata la concentrazione le ultime ore della giornata trascorsero velocemente.

- Un altro giorno è giunto al termine - commentò Fandor quando il suono del corno annunciò l’ora del sonno.

Il druido ripose i libri nello scaffale cercando di evitare accuratamente l’antico testo che Zargot aveva portato, ma quando lo sguardo si posò sulla bella immagi­ne impressa sulla copertina di cuoio, il cuore, indurito da anni, ebbe un sussulto.

- Oh Arden! - esclamò il vecchio con gli occhi che volevano riempirsi di la­crime - Quando tu parlasti di sacrifici, mai avrei pensato a una simile agonia. Quando tu parlasti del Nuovo non avrei creduto fosse tanto terribile. Ti prego, mia signora, guida le mie gesta e perdonami se quello che sto per fare va contro i tuoi insegnamenti. -

Un soffio di vento entrò dalla piccola finestra e la luce tremula della candela danzò sulle pareti di pietra, mostrando ombre prima nascoste.

Fandor si avvicinò al tavolo sul quale giaceva il vecchio libro e posò la mano sull’immagine della donna dalle evidenti caratteristiche elfiche.

Chiuse gli occhi per rammentarne ogni particolare e gli anni della sua gioven­tù gli apparvero nitidi.

Ricordò i giorni trascorsi con lei, i suoi insegnamenti e le arti magiche appre­se dalle sue labbra e ricordò di aver conosciuto il dolore quando seppe di averla persa.

Le dita sfiorarono lievemente il ritratto in un gesto di affetto e quegli occhi parvero illuminarsi di vita.

- Oggi tutti ti conoscono con il nome di Strega Grigia - sussurrò Fandor come se parlasse a un fantasma apparso per un momento nella penombra - ma io so che c’è del buono in te. Permettimi di leggere il tuo libro e aiutami a salvare i nostri simili. -

Improvvisamente il vento che entrava dalla finestra divenne più insistente e le pagine ingiallite dal tempo scorsero veloci davanti al druido.

Le parole scolorite divennero nitide e Fandor, mosso da un’irrefrenabile cu­riosità, incominciò a leggere ciò che per anni era stato celato.

Trovò formule di ogni genere: alcune per uccidere, altre per alleviare le pene dei mortali, altre ancora per rafforzare l’essenza e continuare la vita dopo la morte.

“Continuare la vita dopo la morte… ”.

Era una frase che gli martellava nella mente.

E se in quel libro fosse celato il segreto della reminescenza?

Forse avrebbe potuto ridare la vita ai suoi compagni e concedere loro una seconda possibilità.

Questa volta il Nuovo non li avrebbe tratti in inganno e la missione avrebbe avuto maggior possibilità di riuscita.

Era affascinato da quell’idea, ma in città nessuno gli avrebbe dato il permesso di realizzare una simile follia, quindi avrebbe dovuto fare tutto di nascosto e assumerne la responsabilità.

Quando le luci dell’alba rischiararono la stanza tetra, Fandor era ancora sedu­to al vecchio tavolo.

Gli occhi gli dolevano per la lettura forzata e un leggero sudore gli imperlava la fronte rugosa.

Non sapeva se fosse per la stanchezza o per l’euforia, ma il cuore gli batteva nel petto con insistenza e quando la porta di legno cigolò per far entrare Zargot, Fandor non se ne accorse.

- Maestro! - chiamò più volte l’allievo - Maestro stai bene? Rispondimi. -

Fandor distolse lo sguardo dal libro e sgranò gli occhi in cerca di chi aveva parlato.

- Sì figliolo. - rispose con difficoltà - Sto bene. Portami un bicchiere d’acqua per favore. -

Subito il ragazzo gli portò cosa aveva chiesto e impaziente aspettò che il vec­chio si riprendesse.

- Avete letto il libro? - domandò il ragazzo in estasi - Avete trovato qualcosa? -

Il vecchio tardava a rispondere e Zargot divenne irrequieto.

- Ho trovato molto di più di quanto cercavo. - rispose Fandor - Forse so come salvare non solo nani e gnomi, ma anche l’intera missione. Presto ragazzo. Pre­para i bagagli. Ci metteremo subito in viaggio. Non possiamo rimanere qui. -

- E dove andremo maestro? -

- Nella Terra degli elfi. Là nessuno ci disturberà e forse potremo portare a termine gli studi che ci interessano. -

Zargot continuò a preparare le borse, mentre Fandor si recò dal Consigliere per ottenere il permesso di lasciare Biblio.

Il vecchio saggio giustificò la sua decisone dicendo che doveva andare a Sme­ralda per portare a termine lo studio dell’arco di Ermafren e, senza difficoltà, ottenne il lasciapassare.

La Terra dei druidi non era lontana da quella degli elfi e gli atroci eventi del nord non avevano ancora raggiunto quei luoghi.

Il sole brillava nel cielo azzurro, l’aria pulita rendeva i colori luminosi e il cammino dei due viandanti proseguì per tutto il giorno senza interruzioni.

Al tramonto avevano già raggiunto la foresta di Smeralda e, per trascorrere la notte, si accamparono in una radura circondata da imponenti querce.

- Paura del buio ragazzo? - domando sorridendo Fandor.

L’assistente non rispose, ma il suo nervosismo era più eloquente di qualsiasi risposta.

- Hai ragione di averla; ma ti posso assicurare che in questa foresta è molto più preoccupante ciò che si vede di quello che non si vede. La magia degli elfi ci protegge da entità avverse, ma non prendono in considerazione lupi ed altre bestie carnivore. Le considerano parte della natura, quindi le lasciano libere di scorrazzare a loro piacimento. Ti consiglio di stare vicino al fuoco se non vuoi brutte sorprese questa notte. -

Zargot fece un sorriso imbarazzato e tratto dalla sacca un po’ di formaggio e del sidro cercò almeno di sedare i morsi della fame.

Fandor era molto stanco a causa del viaggio, ma ancora non riusciva a dor­mire.

Le parole del libro gli martellavano in testa e si sentì preoccupato per tanta insistenza.

Non era da lui una simile euforia e più volte fu sopraffatto dai dubbi.

Stava facendo la cosa giusta?

Avrebbe avuto la forza di fermarsi in tempo se la malvagità della strega aves­se preso il sopravvento?

Per anni aveva studiato ogni tipo di scienza e sempre si era accostato al lavo­ro con entusiasmo, ma ora il desiderio di salvare i compagni stava diventando un’ossessione e questo poteva provocare danni irreparabili.

Il mattino seguente una foschia persistente rese difficile seguire il sentiero.

Più di una volta Fandor perse l’orientamento tra quella coltre bianca e il pen­siero di perdere un giorno a girovagare tra gli alberi rese il vecchio druido più nervoso che mai.

Zargot lo seguiva in silenzio, cercando di assecondarne ogni volere.

Si sentiva in parte responsabile del suo nervosismo e il fatto che il maestro l’avesse portato con sé era una dimostrazione di fiducia che non si sarebbe mai aspettato.

I druidi stavano riempiendo le borracce a un piccolo ruscello quando tra gli alberi apparvero alte figure.

- Maestro. - chiamò Zargot intimorito - C’è qualcuno qui! Chi sono quelli? -

Fandor alzò lo sguardo e il volto accigliato si distese in un sorriso.

- Amici. - disse andando verso le ombre - Grandi amici. - e dopo aver posto una mano sul cuore salutò i nuovi arrivati alla maniera elfica.

Ci furono attimi di silenzio in cui le menti si colmarono delle intenzioni reci­proche, poi la risata del saggio riecheggiò tra gli alberi.

- Ator! - esclamò Fandor - Come al solito non ti si può nascondere niente, ma questa volta sono felice della tua intrusione, mi ero rassegnato a girovagare per l’intera giornata. -

- È così che mi consideri? Un impenitente ficcanaso. - esclamò l’elfo ironico - Se lo sapevo ti lasciavo qui un giorno o due. -

- Ti preferisco ficcanaso piuttosto che menefreghista. Spero tu voglia ospitar­mi nella tua terra, nonostante il fardello che mi porto appresso. -

- Sei sicuro di fare la cosa giusta? - domandò Ator con aria preoccupata.

- Non lo so, ma non possiamo ignorare ciò che accade nel nord e, per ciò che devo fare, non conosco luogo migliore della vostra terra. Qui le forze negative non trovano alimento e tu… conosci la malvagità che racchiude quel libro. -

- Qualunque cosa i tuoi studi provochino noi non potremo intervenire. - lo avvertì Ator - Questo è il periodo di formazione dei gemelli. Non possiamo rischiare di contaminarli con forze estranee. -

- Capisco. Non ti farò richieste assurde. Vorrei solo occupare la capanna nei pressi della cascata per il tempo necessario allo studio. -

Ator guardò preoccupato il druido.

Lo conosceva da infiniti anni ed era stato suo maestro durante la gioventù.

Si fidava di lui e sapeva che se in quel libro c’era una soluzione ai loro pro­blemi, Fandor l’avrebbe trovata.

- Va bene, se proprio ci tieni ti accompagnerò io stesso in quel tugurio che ti piace tanto. -

Il druido tirò un sospiro di sollievo e rise compiaciuto.

- Lo sapevo che ti avrei convinto. In fondo in quanto a pazzia ci assomigliamo abbastanza. -

- Non me lo ricordare maestro, altrimenti non riuscirò a trovare le parole adat­te per giustificarmi con la mia signora. Gahial è cambiata moltissimo da quando ci siamo stabiliti a Smeralda. La soavità che mostrava sulla Terra Eterea è com­pletamente svanita. Ora assomiglia più ad una moglie attenta e vigile, pronta a biasimare ogni decisione affrettata. -

- Per quanto ne so ti stima moltissimo. Forse troppo… amico mio. -

- Già. - rispose Ator soddisfatto e senza aggiungere altro, fece cenno al druido di seguirlo.

Camminarono circa un’ora immersi nella densa coltre bianca che rendeva nulla la vista per chiunque tranne che per gli occhi degli elfi, finché il rumore allegro di una cascata giunse agli orecchi abituati al silenzio.

- Siamo arrivati. - disse Fandor al giovane assistente quando, abbarbicata so­pra un’imponente roccia, apparve la sagoma di una capanna.

- Per i prossimi mesi questo sarà il nostro alloggio. Spero che la gratitudine per averti portato con me non svanisca tra la monotonia di questi boschi. -

Ator aprì la porta e controllò l’interno della casupola.

- Tutto è rimasto come lo hai lasciato. - constatò l’elfo un po’ inorridito dal luogo - Ti farò portare delle provviste. -

- Ti ringrazio. - replicò soddisfatto il druido - Presto manderò Zargot dai ma­estri vetrai per acquistare ampolle ed alambicchi. Il tempo produce effetti de­vastanti sui miei arnesi. -

Ator guardò il banco di lavoro e ricordò i primi anni trascorsi in quella terra.

La curiosità per le ricerche aveva contagiato anche lui e insieme al maestro aveva trascorso molto tempo in quella capanna.

- Stai attento Zargot. - lo avvisò Ator - Non prestare troppa attenzione a quello che ti dice il saggio, altrimenti passerai gli anni migliori della tua vita dietro formule e teorie. Ti posso assicurare che questa Terra offre cose migliori di quelle che Fandor ti vuol mostrare. -

- Già e tu ne sai qualcosa vero? - replicò seccato il maestro.

- Può darsi… ma a quanto sembra siete voi la razza in difficoltà. Noi riuscia­mo a cavarcela egregiamente. -

- Fin troppo egregiamente! - lo rimproverò Fandor, ma Ator sembrò non farci caso e con un cenno di saluto uscì dalla piccola dimora.

Nei giorni successivi furono pochi i momenti dedicati alla lettura del testo di magia.

In un primo momento la capanna non era sembrata tanto malridotta, ma ben presto il tetto si presentò colmo di fessure e il legno dei mobili era completa­mente marcio e mangiato dai tarli.

- Maledizione! - imprecò Fandor quando un dito gli rimase incastrato tra le assi del tetto - Se pensavo che sarei venuto qui per fare il carpentiere, mi sarei trovato un posto nascosto in città. -

- Ma maestro, noi conosciamo il modo per far diventare questa capanna una splendida villetta. Perché non facciamo un’eccezione per una volta. -

- Non dire eresie! - gridò il maestro, gettando lontano il martello che teneva in mano - Quante volte ti devo dire che non possiamo mettere in atto ciò che studiamo. Avevo capito che eri un po’ duro di comprendonio, ma se continui così sarò costretto a rimandarti in città. -

Zargot non replicò e in silenzio raggiunse l’essiccatoio sul quale aveva diste­so alcune erbe medicinali.

Il maestro lo mandava ogni mattina nel bosco per raccoglierne un po’.

Diceva che sarebbero servite per alcune magie elementari, ma Zargot era cer­to che voleva solo liberarsi della sua presenza.

Era stato un onore per lui diventare l’assistente di un antico saggio come Fandor, ma alcune volte il carattere burbero del maestro era difficile da sop­portare.

Finalmente i lavori di riparazione del tetto terminarono e lo studio del Libro della Strega Grigia ebbe inizio.

La lettura si protrasse per alcuni interminabili giorni, poi fu necessario com­piere alcuni esperimenti.

Fandor mandò l’euforico Zargot ad acquistare l’attrezzatura necessaria, ma durante il cammino verso Smeralda il giovane fu assalito da una strana sensa­zione.

La natura benevola di quella foresta, sembrava aver mutato il suo spirito e ora qualcosa d’inquietante si celava tra gli alberi.

Zargot accelerò il passo, mentre un cupo presentimento afferrava il suo cuore e quando raggiunse la città, al capo delle guardie non sfuggì la sua ansia.

- Ehi Amico. - lo chiamò l’elfo in piena tenuta da battaglia - Ti stanno rincor­rendo i lupi per caso? -

- No - rispose il giovane leggermente in imbarazzo - ma sono sicuro che c’è qualcosa di strano tra quegli alberi. -

- Ah, sicuramente! Forse sono i fantasmi che ti sei costruito nella testa, ma se ti fanno questo effetto, sarà meglio che ti scorti fino a casa quando hai terminato i tuoi acquisti. -

Durante la strada di ritorno la strana sensazione provata all’andata non si ripeté.

Forse fu per la compagnia dell’elfo che aveva insistito per accompagnarlo, o forse era stata realmente la sua fantasia a fargli avvertire il pericolo, ma poco lontano dalla capanna un branco di lupi sbarrò loro la strada.

- Te l’avevo detto che erano solo dei bei cagnoni. - asserì divertito il solda­to - Ora dirò loro di starti lontano e vedrai che riuscirai a dominare la paura la prossima volta che verrai a Smeralda. -

L’elfo pronunciò alcune parole in lingua antica e gli animali, scodinzolando, si ritirarono nel folto della foresta.

- Non ti daranno più fastidio - lo informò il soldato - ma la prossima volta che vieni in città porta un arco con te. Forse avevi ragione, questa foresta non è più sicura come un tempo. -

Zargot annuì e ringraziato l’amico, entrò nella capanna.

Fandor, come al solito, era assorto nella lettura e il giovane preferì non di­sturbarlo.

Ultimamente non lo faceva partecipare alle sue ricerche e tra loro il rispetto di una volta si era affievolito.

- Ragazzo! - lo chiamò improvvisamente Fandor - Riordina la casa e prepara la cena. Io tornerò prima di buio. -

La porta si richiuse con il solito frastuono e Zargot si ritrovò nuovamente solo.

Ravvivò il fuoco e prese il secchio per andare a prendere l’acqua al ruscello.

Avrebbe preparato la solita zuppa di radici amare e l’avrebbe insaporita con un po’ di carne secca tagliata a piccoli pezzi.

Non sapeva preparare altro e con malinconia ripensò ai gustosi pasti consu­mati nel refettorio dell’accademia.

All’epoca sognava di diventare assistente di qualche saggio, ma mai si sareb­be immaginato che sarebbe diventato lo sguattero di un vecchio brontolone.

Era assorto in questi pensieri quando l’attenzione ricadde sul libro di magia.

Era lì, incustodito, pronto a rivelare i suoi segreti e Zargot non resse alla ten­tazione.

Avidamente incominciò a scorrere quelle parole scritte con cura da una mano sconosciuta e la sua mente incominciò ad incamerarne ogni recondito segreto.

La lettura continuò nei giorni successivi durante le lunghe assenze di Fan­dor.

Zargot era sempre più convinto che non si nascondessero malvagità tra quelle parole e quando ebbe terminata la prima parte del testo non poté fare a meno di mettere in pratica ciò che aveva appreso.

I piccoli esperimenti terminavano sempre con successo e grazie a questi, Zar­got riuscì a rendere la piccola capanna un po’ più confortevole.

Persino i pasti divennero più vari ed appetitosi, ma Fandor, assorto negli stu­di, non se ne accorse e il giovane si sentì libero di continuare la sua segreta iniziativa.

Il tempo sembrava scorrere più veloce da quando Fandor aveva incominciato ad assentarsi e la primavera aveva reso la foresta più accogliente.

I lupi si erano allontanati e da qualche tempo anche i piccoli animali del bosco non facevano più le noiose incursioni notturne.

Tutto era stranamente tranquillo… troppo tranquillo.

Un mattino Fandor lasciò la capanna di buonora e Zargot fu lasciato solo a compiere i soliti lavori di fatica.

Non ne poteva più di quella vita, così decise di fare qualcosa di diverso.

Prese il libro di magia e lo portò alla luce del sole.

Il sigillo sulla copertina di cuoio risplendette di luce cupa, ma Zargot era troppo eccitato per badarci e posato il libro sul vecchio tavolo posto davanti alla casupola incominciò a leggere ad alta voce la formula magica.

Non era certo di pronunciare esattamente le parole in elfo antico.

Alcune gli sfuggivano e sembravano appartenere ad una lingua sconosciuta, ma ciò che riuscì ad ottenere fu sorprendente.

Immediatamente la casa assunse un aspetto più consono al loro casato e i fiori decorarono il giardino di colori vivaci e allegri.

Il giovane era entusiasta di ciò che aveva fatto, ma la sua euforia venne inter­rotta da un rumore alle sue spalle.

Impaurito si voltò e davanti a lui vide un animale mai visto prima.

Era alto quanto lui, privo di pelo, con zampe dotate di artigli spaventosi e la bocca aperta, ricolma di denti aguzzi.

La bava gli colava dalla lingua e gli occhi bianchi indicavano la sua cecità.

In continuazione annusava l’aria in cerca di colui che emanava l’eccitante profumo e a Zargot parve di essere diventato un gustoso e succulento boccon­cino.

Il giovane lentamente indietreggiò in cerca dell’arco che aveva posato poco distante, ma improvvisamente altri due animali sbucarono dai cespugli.

Per un attimo si sentì perso.

Aveva paura, ma quel sentimento defluì dal suo corpo sotto forma di vapore e si insinuò nelle pagine del libro che teneva stretto tra le mani.

Il cuoio della copertina si alzò ritmicamente più volte come se l’immagine impressavi prendesse vita, poi una luce intensa gli oscurò la vista ed esplose attorno a lui.

Quando Zargot riaprì gli occhi, la paura era svanita e si sentì pervaso dall’eu­foria.

Sicuro il giovane aprì il Libro della Strega e incominciò a recitare la formula che gli era apparsa a lettere infuocate.

Gli animali retrocedettero, non più famelici, ma quando la mano del giovane si alzò tremante, il libro gli sfuggì.

Il potere che lo aveva conquistato svanì e le bestie ripresero sicurezza.

Inferocite si avventarono su di lui.

Invano Zargot cercò di lottare, ma contrastare quella ferocia era impossibile per lui, così, ormai ferito a morte, si abbandonò al suo destino.

Non si era mai sentito tanto vulnerabile come in quel momento.

Ignaro di ciò che gli accadeva attorno, fluttuava nell’oscurità tra due mondi distinti, incapace di scegliere quale dei due gli appartenesse, poi una fitta al petto lo risucchiò in una dimensione a lui familiare e quando aprì gli occhi, Fandor era vicino a lui.

- Ragazzo mio! - sussurrò il vecchio preoccupato - Tu non sai quanto sono contento di vederti in vita. Come stai? Ho chiesto aiuto ai guaritori elfi. Vedrai che ti rimetteranno in piedi presto. -

Zargot cercò di parlare, ma non ci riuscì e perse i sensi.

In quello stesso momento Ator entrò nella capanna.

- Cosa avete intenzione di costruire qui, una reggia? - chiese l’elfo con aria di rimprovero - Credevo che eravate venuti per studiare, non per diventare mastri costruttori. -

- Mi dispiace Ator - rispose il maestro - ma non è opera mia. Zargot deve aver provato a mettere in atto qualche formula in mia assenza ed ecco il risultato. -

L’elfo si avvicinò al letto dove era coricato il giovane e gli aprì la camicia.

Un orribile squarcio gli devastava il costato e il sangue continuava ad imbrat­tare la benda che Fandor gli aveva applicato.

- Non è la ferita che mi preoccupa, ma il veleno che gli ha infettato la carne. - disse Ator - Quella sostanza non proviene dal mondo di superficie e la nostra magia non riesce a contrastarla. -

- Sono state le bestie del nord ad attaccarlo. - lo informò il druido.

- Lo so, ne abbiamo avvertito la presenza giorni fa. Non si erano mai avven­turate oltre i nostri confini. Qualcosa deve averle attirate e forse so cosa deve essere stato. -

- Mi dispiace amico. - si scusò Fandor - Ho cercato di allontanarle da Smeral­da, ma il loro numero aumenta ogni giorno. Ho fallito. La mia era solo follia e Zargot ne sta pagando le conseguenze. -

- Non disperare. - lo incoraggiò l’elfo. - Il ragazzo è forte e forse possiamo ancora salvarlo; però devi portare quel libro lontano da me. -

Fandor fece quello che gli era stato chiesto e rimase a guardare l’elfo pren­dersi cura dell’amico.

Una luce bianca inondò la stanza e dalle mani di Ator una forza benefica si insinuò nel costato squarciato del giovane, rimarginando la profonda ferita.

- Ecco fatto. Ora almeno non perde più sangue. -

- Non possiamo fare altro? - domandò il druido.

- Solo aspettare. Se riuscirà a superare la notte sarà fuori pericolo. -

Fandor annuì, poi i suoi occhi cerchiati dalla preoccupazione si fissarono in quelli profondi dell’elfo.

- Hai detto che il veleno non appartiene al mondo di superficie - considerò il druido con un filo di voce - quindi deriva dalla terra… Forse Gahial potrebbe… -

- Non nominarla nemmeno. - replicò immediatamente Ator, scandendo len­tamente le parole - Prima che tu venissi qui, ti ho avvertito che non avremmo potuto aiutarti. Ci hai recato più danno di quanto avrei mai creduto. Non ti permetterò di coinvolgere Gahial in questa pazzia. -

- Sei troppo legato a lei e perdi la lucidità. Le bestie sono una realtà che dob­biamo affrontare e forse lei è l’unica capace di combatterne il veleno. -

- Io sono legato a lei come tu sei legato a questo ragazzo. Io almeno ho il coraggio di ammetterlo. Tu invece sei talmente accecato da quel libro che sei caduto nel suo inganno. Hai lasciato il tuo protetto in balìa della magia della strega ed ora vorresti che ti seguissi in questa follia mettendo a repentaglio l’integrità dell’unica persona che mi rende questa vita accettabile. Non pensare che ti segua, maestro. Non questa volta. -

- Tu l’ami. - l’accusò Fandor - E sei accecato da questo sentimento come io lo sono del libro. -

- Sì, ma se vuoi rimanere mio amico, dovrai accettarlo. -

Ator rimase a fissare il saggio ancora per qualche secondo, poi con calma uscì dalla casetta.

Fandor, in piedi accanto al letto era incapace di scindere la logica dai senti­menti.

- Cosa hai fatto …. - sussurrò affranto al giovane amico, mentre con una pezza bagnata gli rinfrescava la fronte - Sei il solito incosciente e io lo sono più di te. -

Esortato da quella voce, Zargot sbatté più volte le palpebre e gli occhi velati da un malessere persistente si fissarono sull’involucro di stoffa che celava il libro di magia.

- Maestro. - sussurrò con difficoltà - Io morirò, vero? -

Fandor non sapeva cosa rispondere.

- No. Non ti preoccupare. Ator è venuto a curarti. Vedrai che ce la farai. -

- È inutile mentire, maestro. Anche se sono in fin di vita avverto ancora i vostri pensieri. Io morirò, ma questo potrebbe essere un bene in un momento come questo. -

Il saggio respinse le lacrime che volevano cadergli sulle guance rugose e ver­sò dell’acqua nel bicchiere del giovane.

- Non dire sciocchezze, se avverti i nostri pensieri saprai anche che puoi far­cela. Basta solo che tu lo voglia. -

- Ma io non voglio! - esclamò Zargot, esplodendo in una tosse stizzosa - Vo­glio morire, così tu potrai provare la reminescenza su di me. -

- Lo sai che non posso. -

- Sì che puoi. Guarda cosa ho fatto io con questa casa. Tu con le tue conoscen­ze puoi trasformare quel libro malefico in un bene per tutti noi. -

- Non essere assurdo. - borbottò Fandor, mentre lo sorreggeva per farlo bere.

- Non lo sono maestro. Sono realista, ma se non riesco a convincerti allora preferisco morire. Non voglio vedere la nostra stirpe sopraffatta dalle novità di questa Terra. Non voglio essere testimone della fine del nostro mondo. -

Le parole di Zargot rimbalzarono più volte sulle pareti della piccola stanza provocando un leggero eco che rafforzò l’enfasi della richiesta.

Fandor dovette premersi le mani sulle orecchie per tenere lontana quella voce lamentosa, ma la mente ne raccolse ugualmente la pretesa.

Voleva bene a quel ragazzo e nonostante avesse cercato di allontanarlo ora, che stava per perderlo, non poteva più negare il sentimento che provava per lui.

Gli prese le mani per trasmettergli l’affetto che sentiva traboccare dal suo cuore e quando le sentì tremare continuò a tenerle tra le sue, finché non riuscì più a scaldarle.

- Zargot! - sussurrò il druido in lacrime - Zargot non mi lasciare! -

Fandor rimase alcune ore accanto al corpo del giovane incapace di prendere una decisione, poi liberò il libro dal mantello in cui l’aveva avvolto su richiesta di Ator e lesse ad alta voce la formula della reminescenza.

Invocate le forze invisibili e versata la pozione sul corpo ormai freddo, cupe luci si sprigionarono dal cadavere.

Lentamente volteggiarono nella stanza senza illuminarla, poi si unirono in un’unica fiamma che, posatasi a terra, assunse l’immagine dell’amico.

Fandor guardava incredulo quegli eventi sconosciuti senza avere la forza di opporsi alle sensazioni sgradevoli che gli provocavano, poi, sotto i suoi occhi, quell’immagine vaga si materializzò e Zargot sorse a nuova vita.

Il maestro non conosceva il significato di molte parole che aveva pronuncia­to e non sapeva chi o cosa avessero evocato, ma pur rendendosi conto di aver infranto ogni legge antica esistente, quando il giovane gli sorrise, l’unico desi­derio fu quello di abbracciarlo.

- Te l’avevo detto maestro. La tua sapienza può far diventare utile persino un libro stregato. - si congratulò il ragazzo euforico.

- Lo spero, caro ragazzo, ma fino ad ora credo di aver combinato solo guai. -

Il volto sereno del giovane sembrava smentire ogni timore e felice per quella seconda opportunità, abbracciò con trasporto il vecchio.

Per qualche minuto la gioia fece da padrona nella piccola dimora, poi tutto l’entusiasmo svanì e gli occhi del ragazzo si riempirono di terrore.

- Maestro! - esclamò Zargot in preda al panico – Ccc… cosa c’è nel letto? -

Fandor si volse e ancora nella posizione in cui lo aveva vegliato, vide il corpo esanime dell’amico.

Il druido sentì un brivido scorrergli nelle viscere.

Perché era ancora lì?

Perché non era svanito e soprattutto… chi era quel druido forte e vivo che ora gli stava stritolando un braccio per la paura?

Tutti i dubbi che fino a quel momento era riuscito ad ignorare gli colmarono la mente e quasi le gambe non ressero allo sconforto.

Gli occhi stanchi si mossero veloci nella stanza in cerca di una spiegazione.

In cerca di un capro espiatorio sul quale rovesciare la colpa che lo stava ucci­dendo, ma non lo trovò.

La realtà era evidente.

La formula non aveva ridato vita a un corpo, ma ne aveva creato un altro ed ora stava a lui scoprire se lo spirito che lo animava era quello di Zargot o solo qualcosa di simile.

- Non farci caso. - lo rassicurò il maestro, celando la sua preoccupazione die­tro una maschera inespressiva - Tu sei vivo. È questo quello che conta, perciò sbarazziamoci di ciò che rimane e non pensiamoci più. -

Zargot seppellì se stesso nel piccolo giardino e quando insieme al maestro rientrò in casa, il libro era di nuovo sul leggio pronto ad istruire chiunque si fosse avvicinato.

Fandor pensò ad Ator e l’impulso di distruggere quel sapere infido lo affer­rò.

A grandi falcate si avvicinò al leggio sicuro di compiere in un attimo ciò che da centinaia di anni era stato evitato, ma Zargot fu più rapido di lui.

Afferrò il libro e lo sottrasse alla decisione irremovibile del maestro.

- Non te lo permetto. - lo ammonì il giovane - In queste pagine si cela il segre­to della mia vita e se lo distruggi anch’io farò la stessa fine. -

- Non essere sciocco! Tu sei vivo e se questo libro è stato capace di strapparti alla morte di sicuro ora non sta influendo su di te per mantenerti in vita. Dammi retta figliolo… fermiamoci finché possiamo. -

- Il tempo ha un valore diverso su questa terra. - replicò Zargot chiudendo gli occhi come per ascoltare voci remote - Il libro della strega è stato risvegliato ed ora non possiamo metterlo a tacere. Bisogna terminarne la lettura se si vuole renderlo innocuo e se tu non lo farai, allora continuerò io. -

- Tu? Solo pochi minuti fa eri privo di vita in quel fondo di letto ed ora vuoi mettere in disparte il saggio più importante della tua razza? -

- Bisogna osare se si vuole ottenere. - gli rammentò ironico l’assistente - Sei stato tu ad insegnarmelo. -

- Sì, ma non esagerare. Potrei punirti per quello che hai appena detto. -

Zargot lo guardò con aria di sfida, ma il vecchio era troppo confuso per conti­nuare la conversazione, quindi afferrò il libro e lo posò sul leggio.

La lettura riprese e Zargot mostrò al maestro che cosa aveva imparato nei giorni precedenti.

L’euforia per aver sperimentato e non solo studiato, spinse entrambi i druidi a mettere in atto le formule e, ben presto, si trovarono per casa gufi parlanti e gazze immortali.

Non ci volle molto a Fandor per capire che aveva stravolto l’ordine delle cose ma, nonostante la pericolosità degli esperimenti, Zargot non permise al maestro di rinunciare.

L’eccitazione per ciò che ogni giorno scopriva lo rendeva avido di conoscen­ze, tanto che il maestro notò in lui un preoccupante cambiamento.

L’assistente mangiava pochissimo, non dormiva mai e alcune volte dal corpo si sprigionava una luce intensa, che gli persisteva negli occhi, dandogli nelle ore notturne un aspetto decisamente poco rassicurante.

Fandor non si dava pace per ciò che aveva fatto ed ogni giorno trascorso con il nuovo Zargot lo rese sempre più sicuro del proprio errore.

Lo spirito a cui aveva dato un corpo non apparteneva al suo amico.

Qualcosa gli aveva rubato i ricordi, i desideri, le ultime emozioni ed aveva celato la propria identità trasformandosi in lui, ma quell’essere non era il suo ragazzo, di questo era certo.

L’entità sconosciuta aveva usato i suoi sentimenti, li aveva blanditi, alimen­tati e con questi si era fatta scudo rafforzando il proprio potere nella lettura del libro.

Quel corpo tanto simile al giovane Zargot era solo una copia.

Una copia identica nel suo aspetto, ma talmente diversa nello spirito, che il saggio, al pensiero della malvagità che emanava, sentì le gambe tremare.

L’errore era evidente, il pericolo tangibile e, pur con la morte nel cuore, Fan­dor tentò di porvi rimedio.

Determinato, il druido prese il libro della strega e con passo svelto si recò sulla tomba dell’amico.

In ginocchio e con le mani immerse nella terra bagnata invocò gli spiriti degli avi perché gli facessero da tramite affinché l’anima di Zargot si riappropriasse della propria essenza, poi con le lacrime agli occhi incominciò a recitare la for­mula della reminescenza.

Aveva timore di pronunciare nuovamente l’incantesimo, ma quello spirito era sorto dalle parole incise su quelle pagine e solo tramite esse poteva essere eliminato.

Veloci i termini sconosciuti fluirono dalla bocca del saggio tanto da non affer­rarne né il significato né il suono.

Il fruscio del vento nascondeva il monotono sussurro, ma una forza estranea mise in allerta Zargot e la collera fu tale che un’energia oscura tracimò dal suo corpo.

Quando l’entità raggiunse il piccolo tumulo ai piedi della quercia, ogni cosa parve essere inghiottita dalla sua presenza, ma il vecchio saggio non gli permise di prendere il sopravvento.

Le parole continuarono a scorrere indistinte sulle labbra del druido, mentre la mente chiedeva a quel corpo privo di anima di restituire la vita rubata, ma ciò che ne derivò fu solo un ulteriore conferma ai propri timori.

Il corpo di Zargot si smaterializzò e una polvere biancastra si posò su ogni cosa; l’entità che lo animava, tuttavia, non venne danneggiata e il desiderio di vendetta era talmente forte che l’aria ne venne impregnata.

Per alcuni minuti quell’essere indugiò, incapace di avere coscienza di sé, poi si avvicinò alla fronte rugosa del maestro e, con piacere, si nutrì dell’antico spirito.

Solo quando ne fu sazio lasciò cadere a terra il corpo inerme.

Tutto in quel luogo venne turbato dalla nuova presenza.

Gli alberi morirono, i prati ingiallirono, i fiori appassirono, poi l’entità prese il libro della Strega Grigia e lasciando dietro di sé una scia di desolazione, fuggì da quella terra che più di ogni cosa sentiva ostile.

Gahial, sensibile ad ogni mutamento delle forze presenti in natura, avvertì immediatamente il formarsi del nuovo essere.

Percepì la sua necessità di essenza e come quella di Fandor fosse stata mal­vagiamente utilizzata.

Così, preoccupata per la sorte dell’amico, mandò alcuni fidi a prenderne il corpo.

Fandor le venne portato in fin di vita e, con cura, fu disteso sopra un letto dorato.

Serena, la signora gli prese le mani segnate dal tempo e una luce azzurra de­fluì dal suo corpo, donandogli vita e anima.

Entrambi rimasero immersi nel chiarore azzurro per lunghi minuti, poi Gahial si scostò e, con tono solenne, parlò.

- Mio caro amico - disse - dono a te parte di me, affinché tu possa, con la saggezza, rimediare a ciò che hai fatto. Che gli errori siano d’insegnamento e che ti possano dare maggior sapienza rispetto a coloro che errori non hanno commesso. Che i tuoi consigli siano musica per gli orecchi di chi ascolta e sii forte perché gli sbagli in cui sei caduto ti renderanno la strada difficile ed avrai nemici e amici sordi alla tua voce. Ti dono la forza per rigenerarti nell’essenza, affinché la tua saggezza giunga a coloro che, dotati di natura nuova, saranno destinati ad affrontare il Male. Ti dono la mia anima perché, grazie a te, un giorno si possa creare quel mondo a cui tutti noi auspichiamo. -

La mano della Signora si posò lieve sulla fronte rugosa del druido rassicu­randolo con la propria presenza, poi lo lasciò e un velo di pace calò su di lui, facendolo sprofondare in un’incoscienza rigenerativa.

Sette giorni trascorsero prima che Fandor fosse in grado di alzarsi e, quando vi riuscì, si recò nei meravigliosi boschi di Smeralda per rinvigorire l’essenza e ritrovare, in questo, l’antico piacere.

Spesso Ator l’accompagnava e, durante le lunghe passeggiate, parlavano del­la Terra Eterea che, se anche lontana, era sempre viva nei loro cuori.

Come esuli, ne assaporavano i ricordi, rivivendone le sensazioni e i profumi e il pensiero che, tra loro, c’era già qualcuno che non l’aveva vista, li preoccupò.

Erano trascorsi, ormai, cento anni da quando avevano messo piede sulla Nuo­va Terra e nelle razze vi erano state delle nascite.

Era necessario che la storia antica venisse tramandata e così Fandor s’im­pegnò ad esortare i druidi all’insegnamento, ma il re aveva un altro favore da chiedere e, riponendo in lui la fiducia degli elfi, espresse la sua richiesta.

- Nonostante siano trascorsi solo cento anni dalla loro nascita, ben presto i ge­melli avranno raggiunto l’età adulta e il loro corpo non troverà completamento unicamente con l’essenza della Nuova Terra, perciò, prima di quanto stabilito, dovranno allontanarsi dalla dimensione intermedia per raggiungere definitiva­mente questo mondo. La loro inesperienza potrebbe trarli in inganno e quindi avranno bisogno di guide forti e fidate. Chiedo a te, Fandor, di assolvere questo compito. Tu hai la sapienza necessaria per istruirli e guidarli contro il Male che oscura questi luoghi. Da te impareranno il modo di combatterlo e avranno giusti consigli per aiutare colei che lo sconfiggerà. -

Fandor ascoltò sconvolto quelle parole e a stento accolse la gravosità dell’in­carico che gli veniva conferito.

Se gli eventi, anche quelli fortuiti, non si fossero ben intersecati, tutto sarebbe fallito.

Il suo errore sarebbe stato fatale sia per la sua stirpe, che per quella degli uo­mini e inutile sarebbe stato ogni sacrificio.

Lui doveva riuscire a mediare ogni situazione futura.

Ne sarebbe stato all’altezza?

Non lo sapeva.

Ora, il buon esito della missione era nelle mani della Predestinata che ancora doveva nascere.

Era nella sua forza, nella sua determinazione e tutto doveva essere preparato per il suo arrivo.

Solo così avrebbe potuto rimediare alla sua colpa e, con grande onore, accettò la fiducia che il popolo elfico gli conferiva.

Per Fandor il periodo dell’apprendimento era terminato.

Ora doveva mettere a disposizione il suo sapere, ma in fondo questo era il suo compito: consigliare e insegnare e lo avrebbe fatto al meglio delle proprie capacità, per tutto il tempo che gli era concesso, finché il Bene non fosse pre­valso sul Male.

 

4. Incontro

 

Erano trascorsi più di cento anni da quando le razze immortali erano sbarcati sulle coste della Nuova Terra e da allora gli eventi buoni e meno buoni si erano susseguiti a gran velocità.

Il fluire del tempo non era mai stato un problema per questi popoli e il lungo pensare era, da sempre, considerato una necessità.

Ora, però, tutto avveniva in maniera diversa, più rapida, caotica e questo ave­va provocato un preoccupante disorientamento tra i saggi.

Persino le nuove generazioni mostravano maggior vivacità e anche i gemelli, nonostante non avessero terminato il periodo di formazione, già mostravano segni di intolleranza.

Fu per questo motivo che un giorno la regina delle fate si recò da Gahial.

- Mia Signora. - le disse - È giunto il momento per i tuoi figli di tornare nel mondo reale. Essi non si completano più nella dimensione intermedia e ciò potrebbe causare un pericoloso scontento. L’età giovanile deve avere inizio ma, come purtroppo sappiamo, per uno di loro terminerà l’immortalità e inizierà l’inesorabile trascorrere del tempo che lo porterà al sonno eterno. Importante sarà seguire la sua crescita perché per lui il tempo incalza e ciò che deve com­piere è indispensabile per la nostra causa. L’altro invece sarà seguito nell’ap­prendimento ancora per molto, affinché sia in grado di comprendere la nuova razza pur rimanendo elfo nel cuore. Dovrà essere forte e determinato, ma anche sensibile a quei sentimenti che in questa terra insidiano fortemente la mente de­gli immortali e soprattutto dovrà distinguerne i buoni dai cattivi, affinché mai si abbandoni ad essi. Terribili sarebbero le conseguenze se dovessimo fallire. La sua Essenza è la Nuova Terra e ne porta in sé lo spirito. Egli ha ereditato molto da te, mia signora! In lui vi è la forza per domarla ma, se ciò dovesse mancare, questa terra tornerebbe impervia come prima del nostro arrivo. -

Gahial, triste per la sorte dei figli, ma allo stesso tempo fiera per ciò che do­vevano compiere, si recò nella dimensione intermedia e, per la prima volta, li incontrò.

Rimase esterrefatta dalla loro diversità.

Marsen era colui a cui più teneva.

In lui si potevano riconoscere sia gli aspetti fisici che caratteriali della nuova razza.

Scuro di carnagione, con occhi verdi come la madre e il corpo robusto e pos­sente, era più alto di lei.

I capelli castani e ondulati gli ricadevano sulle larghe spalle e i modi rudi e decisi, lo rendevano virile.

Vestiva un’ampia camicia marrone stretta intorno alla vita da una fascia verde alla quale era saldamente fermata una spada forgiata dai fabbri nani.

I pantaloni di pelle erano infilati in lunghi stivali che gli arrivavano fin sotto le ginocchia e bastava questo per evidenziare la praticità e la determinazione del suo essere.

Il viso s’illuminò quando vide la madre.

Le si inginocchiò innanzi e, confuso, le baciò la veste, poi alzò lo sguardo e finalmente incontrò quello di lei.

Nei suoi occhi si leggeva il desiderio di stringerla a sé, di ascoltarne la voce, di parlarle, ma si limitò a sorridere incantato da tanta bellezza.

Gahial rise nel vedere la vitalità che si sprigionava da quel giovane corpo.

Il desiderio di conoscere e di vivere era evidente in ogni gesto, in ogni pensie­ro e rimase stordita dalla velocità con cui passava da una domanda all’altra.

Quello sguardo profondo e intelligente la conquistò, tuttavia sapeva che il suo ragazzo aveva un gran bisogno di sostegno e di guida.

L’impulsività umana lo avrebbe condotto verso mille pericoli e aveva paura che tutte le virtù di Fandor non sarebbero bastate a placare quell’impeto.

Ci sarebbe voluto un esercito intero per tenerlo a freno!

Ma questo le piaceva… le piaceva molto.

In lui si concentrava una vita immortale da vivere in pochi anni!

Sarebbe stata bella, di questo era certa!

Poco lontano, appoggiato ad un albero, Landril guardava divertito l’incontro tra il fratello con la madre.

Decise di non intervenire e lasciare che Marsen sfogasse la sua euforia.

Non voleva rovinargli l’incontro che da tempo sognava e solo quando il gio­vane si allontanò, Landril si fece avanti.

Gahial aveva avvertito la sua presenza, quindi volse lo sguardo e per la prima volta lo vide.

Era più fine nei lineamenti rispetto al fratello, autorevole nel portamento, ma gentile nei movimenti.

Era alto quanto Marsen e il corpo armonioso esprimeva forza ed agilità.

I capelli lunghi e color dell’oro come quelli del padre erano tenuti fermi da una fascia di cuoio che gli cingeva la fronte spaziosa, mentre gli occhi azzurri e profondi mostravano le tipiche caratteristiche elfiche.

La Signora protese una mano verso di lui e Landril la raggiunse.

Il passo fiero e guardingo rivelava l’origine elfica sempre attenta a cogliere ogni sussurro della natura, mentre l’indole calma e circospetta non lasciava spazio all’imprevisto.

In lui erano evidenti le doti del popolo immortale, ma era anche palese che l’essenza apparteneva alla madre.

Non portava armi con sé, se non un piccolo pugnale alla cintura, mentre dall’ampia camicia, lasciata aperta per meglio avvertire la sensazione del vento sulla pelle, sporgeva il medaglione a forma di albero simbolo della sua essenza.

Entrambi non parlarono.

Non era necessario tra esseri della loro specie e tramite la comunione delle menti seppero dell’altro molto più di quanto avrebbero potuto in ore di parole.

Gahial lo accarezzò, lo baciò in fronte e una volta raggiunti da Marsen, insie­me, lasciarono la dimensione intermedia e s’inoltrarono nel mondo reale.

Ad attenderli c’era Ator attorniato dal suo popolo.

I gemelli s’inginocchiarono davanti al padre e, con voce ferma, giurarono eterna fedeltà alla causa, poi i presenti intonarono canti di benvenuto e le pa­role dei due giovani vennero trasportate lontano affinché anche la Terra Eterea potesse udirle e ne fosse fiera.

Terminata la cerimonia che, se pur semplice nel contenuto, fu unica nella storia delle antiche razze, i due fratelli presero strade diverse.

Landril si diresse verso il Regno delle Fate accompagnato dalla bella regina, mentre Marsen, insieme a Fandor, andò alla scoperta del nuovo mondo.

 

e la storia incomincia .........